Nella giornata di ieri, alcune vicende che riguardano il settore dell’automotive – e, in particolare, due importanti player come Stellantis e Magneti Marelli – ci danno indicazione di come le Istituzioni non stiano governando la trasformazione dell’industria. Senza un opportuno sostegno, quella che è un’opportunità importante per il manufacturing italiano, rischia di rivelarsi un problema sociale. Ma andiamo con ordine.



Presso la sede di Confindustria, Magneti Marelli e sindacati si sono incontrati per il consueto meeting di verifica sulla situazione dei siti italiani del gruppo. L’azienda a fine riunione ha comunicato di voler chiudere lo stabilimento di Crevalcore (BO) dove oggi sono impiegati 231 lavoratori che producono collettori di aspirazione e componenti pressofusi per motori endotermici. L’azienda è intenzionata a spostare l’attuale produzione di collettori nel sito di Bari mentre esternalizzerà le produzioni pressofuse. Marelli ribadisce che l’Italia è strategica, in quanto lo considera “un centro di rilievo in ambito ingegneria e ricerca e sviluppo, così come un importante polo produttivo”.



Nel mentre, non lontano da Bari, i lavoratori dello stabilimento Stellantis di Melfi sono andati in sciopero (adesione del 90/100% secondo i sindacati, del 25% secondo l’azienda). Anche negli Usa, in questi giorni, i lavoratori delle Big Three (General Motors, Ford e Stellantis) hanno scioperato, ma per aspetti retributivi legati al rinnovo dei contratti. Si tratta del più grande sciopero della storia dell’auto in America, tanto che l’ex Presidente Obama, a commento dell’agitazione, ha dichiarato:”La mia amministrazione aiutò le aziende, ora che fanno profitti alzino i salari”.



A Melfi, tuttavia, non si sciopera per i salari ma essenzialmente per gli impegni che Regione e Governo disattendono e per la mancanza di risposte da parte dell’azienda riguardo all’organizzazione del lavoro e della produzione. In particolare, Stellantis non ha ancora illustrato con chiarezza i suoi piani riguardo i 5 modelli elettrici che intende produrre a Melfi.

Proprio ieri pomeriggio, azienda e organizzazioni sindacali (Fim, Uilm, Fismic, Uglm, Aqcfr) si sono incontrati: Stellantis ribadisce che Melfi è “centro per la produzione dell’auto elettrica” e che – si legge nella nota diffusa dalle oo.ss. – “a Melfi nei prossimi giorni sarà illustrato il piano di avanzamento con i tempi dei nuovi modelli elettrici”. Inoltre, Stellantis ha aggiornato i sindacati sulla discussione in corso col ministero delle Imprese e del Made in Italy, che dovrebbe tradursi entro fine settembre in un documento che definirà un piano di lavoro e a cui seguirà un confronto con le organizzazioni sindacali.

Peraltro, nella medesima nota, si legge che Stellantis giudica il piano italiano di incentivi per le auto elettriche non adeguato e non in linea con i maggiori Paesi europei, ora che la concorrenza cinese appare assai aggressiva sul piano dei costi e che sarà decisiva la scelta che le Istituzioni faranno sul nuovo standard di motore euro 7.

Ora: al di là delle giuste discussioni che il nostro Paese ha aperto in Europa circa i biocarburanti, solo chi non ha compreso la realtà delle cose può mettere in dubbio il futuro della mobilità elettrica. Bisogna pertanto che il nostro Paese si attrezzi per supportare questa grande trasformazione. Che il processo funzioni male, ce lo dicono i numeri che riguardano i cosiddetti green jobs. Si tratta ormai di 4 milioni di lavoratori, pari al 13,7% dell’occupazione (dato Unioncamere/Fondazione Symbola). Il trend è in costante crescita dal 2014, la cosa interessante e al tempo stesso critica è che nell’anno 2021 c’è stata una crescita importante dei green jobs ma, a fronte di una domanda di 1,6 milioni di posizioni, il 40,6% ha avuto difficoltà di reperimento, fattispecie che le imprese lamentano nel 40,6% dei casi contro il 27,8% delle altre professioni, nonché una maggiore esigenza di formare il personale assunto, aspetto che riguarda il 44,7% dei green jobs e solo il 33,2% delle altre professioni. Questo ci dice che laddove vi sono bacini di innovazione vi è difficoltà di individuazione di competenze.

Il problema della transizione del lavoro – che procede di pari passo con la trasformazione dell’industria – coincide sostanzialmente con le politiche attive del lavoro, cosa di cui in Italia parliamo da almeno 25 anni. Non siamo stati mai capaci di farle funzionare, a parte in qualche regione virtuosa (Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Piemonte, Toscana, Trentino Alto Adige). O impariamo mandare a regime le transizioni lavorative o pagheremo un prezzo molto alto: le imprese lasceranno il nostro Paese perché non trovano competenze e condizioni adeguate per i loro investimenti.

Twitter: @sabella_oikos

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