Steve Rudivelli e Luca Rovini vivono parecchio distanti, il primo nella Brianza (alcolica), il secondo nella magnificente Pisa. Ma hanno più di una cosa in comune. Soprattutto, sono due anime libere, innamorate della musica d’autore, di cuori solitari e celebrano in modo diverso ma uguale i perdenti di ogni angolo d’Italia. Già, perché il loro merito principale, lo abbiamo già detto in passato scrivendo di loro, è di guardare all’America ma di cantare in italiano.



Poi se ne fregano un po’ di tutto, delle regole, delle moine per apparire di qua e di là, di quelli che si fanno largo a spallate. Loro viaggiano per la propria strada e hanno bisogno solo di una bella chitarra acustica. O di una band.

E così hanno fatto durante il lockdown: si sono seduti su una seggiola a casa loro e hanno buttato giù una manciata di canzoni per la propria e altrui sopravvivenza. Come dice Rovini citando il leggendario Alex Chilton: “A un certo punto ho capito che se stampi solo cento copie di un disco, allora finisce che quel disco arriva alle cento persone nel mondo che lo desiderano di più”. E così hanno fatto.



Steve Rudivelli con Metropolitan Chewingum (titolo straordinario) si propone in chiave lo fi, tipo lo Springsteen di Nebraska: registrazione con un microfono davanti e basta. Il suono è sporco, si fa anche fatica a decifrarlo, ma il risultato è decisamente accattivante E’ il perfetto lamento dei giorni del lockdown, quando non si sapeva se ne saremmo mai usciti. Rudivelli suona come una sorta di incrocio fra il Rino Gaetano più ironico (la ritmata Conco Beach – “Ma io sono un tipo strano voglio fare la rockstar tra Vimercate e Monza e un vecchio bar o a Conco Beach…”) e il Johnny Thunders agli ultimi sgoccioli, quello che seppur devastato dall’eroina sapeva regalare gemme romantiche di altissimo spessore (Hotel La Principessa). Voce, chitarra acustica, armonica, nessun ampli, nessun microfono, qualche chitarra elettrica aggiunta da Andy D, una viola suonata da Bryan Kazzaniga ne fanno un piccolo capolavoro underground che testimonia in modo perfetto la sciagura dei tempi nostri.

Luca Rovini invece con 10 canzoni per dipingere il mare viaggia sempre verso i suoi amati sogni texani (non manca anche in questo disco una cover da quel repertorio, il brano Sonora’s Death Row di Kevin “Blackie” Farrell, tradotta perfettamente come sempre nel caso di Rovini) , registrando magnificamente la sua chitarra acustica con l’aiuto in un paio di brani dell’ottimo dobroista Paolo Ercoli. Ballate intime, delicate e romantiche che aprono nuovi squarci sulla sua già ottima produzione, molte delle quali dedicate alla compagna che nel periodo lockdown per colpa di confini che esistono solo nel mondo dei potenti non ha potuto raggiungere per tre mesi. Ballate di grande classe, sempre ai confini fra Texas e Messico in cui spiccano la bellissima Dipingere il cielo dedicata con grande sentimento al padre, l’elegante Dove il cielo bacia il mare, la “rockata” 176esimo sogno di Luca Rovini accompagnata da chitarra battente suonata con grande classe, brano di grande impatto.

Due dischi testimonianza, due storie diverse, ma con una cosa in comune: il cuore. Pochi come loro in Italia, consigliati. Buona notte rockers.