Nell’immaginario collettivo l’Accademia della Crusca, secolare istituzione dedicata alla lingua italiana, è associata all’idea di un manipolo di polverosi accademici, probabilmente chiusi a chiave in qualche archivio zeppo di libri e documenti di grammatica, che passano il tempo a scandagliare come parliamo e scriviamo e a fare le pulci alla nostra correttezza ortografica e grammaticale; dare dell’accademico della Crusca a qualcuno equivale un po’ a dargli del pignolo, del maestrino di ortografia il cui scopo è terrorizzare noi poveri analfabeti con le sue correzioni e con le sue tirate d’orecchie per la scarsa considerazione che abbiamo per l’idioma di padre Dante.
Niente di tutto questo, in realtà: la Crusca è un’istituzione antica sì, ma perfettamente al corrente dell’evoluzione della lingua italiana, che sa aggiornarsi sui cambiamenti moderni senza perderne di vista le strutture, il vocabolario e l’ortografia fondamentali. Nessuna accademia distaccata dalla realtà odierna della lingua, dunque, ma un ente autorevole e moderno che aiuta il nostro idioma ad evolversi e rimanere contemporaneamente sé stesso.
È notizia di questi giorni di una circolare che il ministero dell’Istruzione e del Merito ha diffuso ai dirigenti scolastici di tutte le scuole e ai direttori degli Uffici scolastici regionali in cui si citano chiarimenti e precisazioni che vengono dall’Accademia della Crusca a proposito di una questione che riguarda la lingua italiana usata negli uffici pubblici, nelle scuole appunto, ma anche in ogni testo redatto in “lingua giuridica e burocratica”.
La materia del contendere riguarda certi segni che sul piano grafico vengono utilizzati per sostituire le desinenze del maschile e del femminile per non determinare il genere dei sostantivi, allo scopo di evitare discriminazioni, appunto, di genere: in particolare l’asterisco (*) e la “e” rovesciata (ə), la cosiddetta schwa, che a sentire proprio la Crusca si può anche chiamare in italiano scevà, cosa che ci permettiamo di preferire.
L’utilizzo di questi segni ha origini americane e politiche: legato al dilagare della cosiddetta lotta per i diritti sessuali, certe università liberal e di sinistra americane hanno cominciato a stigmatizzare l’utilizzo delle desinenze, ma anche degli aggettivi e dei pronomi maschili onnicomprensivi, fino ad arrivare a degenerazioni esilaranti: ad esempio si condanna l’uso della parola “History” (“Storia”) perché le prime tre lettere, his, sono il maschile “suo” (di lui), proponendo di chiamare la storia “Herstory”, (dove her significa “di lei”), e altre baggianate simili.
Si comprende come questa grottesca revisione ortografico-grammaticale sia un paragrafo dell’affermazione su larga scala (accademica) dell’ideologia woke, di cui anche gli americani devono avere le tasche piene, data la rivoluzione elettorale che ha incoronato uno come Trump pur di mazziare Kamala Harris, che ne era l’esponente.
Naturalmente molte università italiane, e persino scuole superiori, si sono accodate al carro posticciamente culturale di questa moda e hanno iniziato non solo ad usare certi segni nei loro documenti ma anche ad organizzare corsi per affrettare la riforma grammaticale della nostra lingua, colpevole, ad esempio, di avere l’esecrata desinenza maschile onnicomprensiva, per cui se diciamo che “tutti gli uomini sono uguali” non intendiamo che tutti i maschi sono uguali, bensì che l’umanità intera è composta da individui (e non è necessario aggiungere “individue”) che posseggono tutti i medesimi diritti.
L’Accademia della Crusca, consultata dal ministero, l’ha detto chiaro e tondo. Ecco alcune affermazioni: “L’asterisco non è […] utilizzabile, a nostro parere, in testi di legge, avvisi o comunicazioni pubbliche, dove potrebbe causare sconcerto e incomprensione in molte fasce di utenti, né, tanto meno, in testi che prevedono la lettura ad alta voce”; e aggiunge: “Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico (“Car* amic*, tutt* quell* che riceveranno questo messaggio…”). Lo stesso vale per lo scevà o schwa…”.
I seguaci nostrani di questa moda potrebbero obiettare che questi pareri siano stati dati in conseguenza dell’avvento del governo reazionario di Giorgia Meloni combinato con la recente vittoria negli USA di Trump, il quale sta effettivamente spazzando via quella che lui considera l’immondizia woke penetrata fino alla grammatica. Peccato che il primo parere in cui l’Accademia della Crusca considera scorretto, sconveniente e pericoloso l’uso di questi segni risalga al 24 settembre 2021, quindi in anticipo di oltre un anno sul governo di centrodestra di Giorgia Meloni, arrivato il 22 ottobre 2022.
Il fatto è che certe presunte riforme sono solo delle sciocchezze e dei pasticci, peraltro di tipo politico. Ancora la Crusca, a proposito della scevà, ci ricorda “che sul piano grafico il segno per rappresentarlo (la e rovesciata) non è usato come grafema neppure in lingue che, diversamente dall’italiano, hanno lo schwa all’interno del loro sistema fonologico”. Diventa quindi chiaro il motivo per cui certi sistemi di pressione politica ne volessero imporre l’uso anche da noi.
La speranza è che le indicazioni della circolare vengano attuate immediatamente. I problemi dell’uso e dell’apprendimento della nostra lingua (e, pare, di tutte le lingue occidentali dove il flagello woke ha più colpito) sono ben altri, come sa chiaramente chi tenta di insegnarne la correttezza tutti i giorni, e non è proprio il caso di aggiungere all’ignoranza dilagante verso la lingua madre quella che dilaga in università che dovrebbero aver ben altro da fare e insegnare.
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