Al rock non piace il distanziamento sociale che questo virus ha creato. Anche se il rock, dalla società, ha preso spesso le distanze. Fin dall’inizio, metà anni cinquanta, in cui tre canzoni in fila – That’s All Right, Mama di Elvis Presley, Rock Around The Clock di Bill Haley e Tutti Frutti di Little Richard – fanno saltare il banco, in quell’America perbenista del dopo guerra cui sentono di non appartenere. Il rock’n’roll che “giunge dal nulla”, come scrisse Greil Marcus, e che diventa “la grande sorpresa che ha reso ridicoli gli eventi che regolano la vita quotidiana”, dà “ai ragazzi che non vedevano alternative, se non quella di sottomettersi a quegli eventi, un piccolo spazio in cui muoversi”.
Una pretesa di benessere e divertimento – “vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso”, grida Jim Morrison – ma anche di pace, giustizia e libertà, da incastrare nelle strofe di canzoni, nei voli lisergici degli assoli di chitarra, nei giri armonici rubati al blues insieme alla sua malinconia.
Ma il rock non è solitudine, ha bisogno della gente, ne interpreta pulsioni e ferite. Certo, a volte la ferita è profonda, persino mortale: “society, crazy indeed, hope you’re not lonely, without me”, canta Eddie Vedder e la sua colonna sonora di Into The Wild è espressione, invece, di una solitudine disperata. Ma, più di frequente, c’è un bisogno di community e allora la dimensione dal vivo diventa essenziale ed il concerto è il luogo in cui quel legame si fa relazione. Perché sì, People Have The Power, come canta Patti Smith, mentre Jackson Browne (ammalatosi di Coronavirus anche lui), le fa eco nella sua splendida The Load: “people you’ve got the power over what we do”. Perciò quella tra il musicista e il suo pubblico è un’unione indissolubile; a volte furiosa, come quando si esprime nel pogo che anima i concerti punk, altre quasi trascendente – chi scrive ricorda l’ultimo concerto di Nick Cave, capace di narrare l’inferno, ma bisognoso poi di mescolarsi in mezzo alla folla, toccarla, entrare nel suo essere – spesso vera e propria comunione: “un concerto è la cosa più vicina a quello che ho sempre pensato che una chiesa dovesse essere – disse una volta Jeff Tweedy dei Wilco – perdi te stesso, e allo stesso tempo realizzi di essere parte di qualcosa di più grande”.
Perciò il distanziamento, la cancellazione dei concerti dal vivo, è divenuta la ferita terribile che questa pandemia ha inferto alla musica rock. Un colpo quasi mortale, con gli artisti che si sono trovati smarriti, perduti. Da qui la necessità di rendersi nuovamente avvicinabili, in dirette sui social, nel tentativo di rendere lo strappo meno doloroso e condividere momenti diventati tristi, come un cinquantesimo di compleanno, ad esempio, festeggiato da Glen Hansard in diretta con migliaia di suoi fans.
Certo, per molti, privati del frenetico susseguirsi delle tappe dei tour, c’è stato anche più tempo per la composizione di nuove canzoni, ma se è vero che il dolore è spesso fecondo, quello nell’isolamento, invece, schiaccia e, qualche volta uccide, quando non lo fa direttamente la malattia, come nel caso di John Prine, che, sconfitto un tumore, ha dovuto poi arrendersi al virus. Così solitudine ed ispirazione non vanno sempre a braccetto, quest’ultima può andare perduta – il nostro Vasco Rossi lo ha dichiarato – e diventa difficile raccontare di qualche luce che passi dalle crepe. Lo stesso Bob Dylan, strappato dal suo Never Ending Tour (era sul palco ininterrottamente dal 1988), compare con due splendide canzoni – Murder Most Foul e I Contain Multitudes – che sembrano raccontare proprio questo tempo, ma si scopre aver attinto a brani che sono sì nuovi (compariranno a giugno nel suo nuovo disco), ma scritti prima della pandemia. Forse l’unica vera nuova canzone rimane allora Living In A Ghost Town dei Rolling Stones. Poche strofe, l’eterna miscela di blues e rock e le immagini di un video ad accompagnarle per raccontare strade vuote, come quelle della nostra anima, rese nevrotiche con un hyperlapse che ben descrive decine di giorni uguali messi drammaticamente in fila.
C’è da augurarsi che il distanziamento finisca presto, che si possa tornare a vivere la musica in quell’indispensabile dimensione live. E forse questa solitudine avrà insegnato qualcosa anche al rock, rendendolo capace di sollevare ancora domande, l’unica cosa che lo ha mantenuto sempre vivo. Accadrà se essa non sarà stata “loneliness” ma “solitude”, isolamento, cioè, non meccanico e forzato, ma spirituale, che porta l’individuo ad elevarsi e ad incontrarsi di nuovo con l’altro. “Andrò sulla riva del bosco e getterò la maschera e i vestiti, impazzisco dalla voglia del suo contatto con me”, scriveva Walt Whitman, in quel “Canto di me stesso” da cui Dylan ha rubato il titolo della sua canzone. Ed anche noi non vediamo l’ora di gettare via la nostra mascherina.