Lunedì sera il Premier Conte ci ha “caldamente” invitati a restare a casa e spostarsi solo se strettamente necessario trasformando, nei fatti, l’Italia in una gigante “area rossa”. Resteranno a casa, per una volta, anche i nostri campioni. Il presidente del Consiglio, infatti, nell’illustrare le misure, ha tenuto a specificare che questo provvedimento varrà anche per le manifestazioni sportive e che non c’è, quindi, ragione per cui il campionato vada avanti. La Serie A, in questo nuovo quadro, così come tutte le altre manifestazioni sportive, si dovrà fermare.
Questo, oltre che sul piano meramente sportivo, avrà delle ricadute, importanti, anche dal lato più strettamente sociale ed economico. Il calcio rappresenta, come noto, il principale sport italiano con 4,6 milioni di praticanti, 1,4 milioni di tesserati per la Figc, quasi 570.000 partite ufficiali disputate ogni anno, di cui ben il 99% di livello dilettantistico e giovanile. Lo sport “nazionale” per eccellenza rappresenta, inoltre, pur sempre la più grande passione degli italiani: oltre 32 milioni di loro si dichiarano interessati a cosa accade in quei lunghissimi novanta minuti (un tempo) della domenica.
Il “sistema” calcio continua per di più a rappresentare il principale contributore a livello fiscale e previdenziale del sistema sportivo, con quasi 1,2 miliardi di euro generati solo dal calcio professionistico (in crescita del 37% tra il 2006 e il 2016) con un’incidenza del 70% rispetto al gettito fiscale complessivo generato dal mondo dello sport italiano. Numeri, questi, che si traducono in importanti riflessi dal punto di vista economico. Si pensi che il fatturato diretto generato dal settore calcio è stimabile in 4,7 miliardi di euro e che ben il 12% del Pil del calcio mondiale viene prodotto nel nostro Paese.
A questi “incassi” diretti si affiancano quelli dell’indotto. Si pensi, ad esempio, al tema, molto attuale, degli investimenti nelle infrastrutture (principalmente nuovi stadi e centri sportivi) necessarie per un calcio moderno che valgono qualcosa come 135 milioni di euro. Un settore quello del “football business” (anche se per chi tifa è difficile pensarlo così) che rappresenta una delle prime dieci aziende italiane e una parte, certamente, importante del made in Italy e dell’italian way of life.
Allenatori, calciatori e arbitri “creano”, è utile sottolinearlo, anche posti di lavoro: circa 40 mila direttamente e altri 100 mila (sulla base di studi della federazione gioco calcio) indirettamente. Lo stop, insomma, al campionato non avrà ripercussioni solo sulle classifiche sportive di fine anno, ma anche sull’economia, e sul lavoro, che di goal, rovesciate e immancabili (nonostante la var) errori arbitrali vive.
Il coronavirus si è rilevato, alla fine, anche un avversario, potremmo dire un bomber, temibile per la grande passione dei tifosi italiani, ma anche per i molti, magari spettatori non interessati, che su questa hanno costruito il loro business e lavoro.