La stop alla cessione dei crediti da “superbonus 110” sembra meritare qualche nota a margine di natura squisitamente politica, mentre si attende ancora chiarezza su tutti gli aspetti tecnici.

Il governo ha varato per decreto una decisione politico-finanziaria di primo livello ottanta ore dopo l’esito delle elezioni regionali in Lombardia e Lazio, che ha segnato un’affermazione nettissima del centrodestra. Dalle urne è uscita la conferma rafforzata dei risultati del voto politico del 25 settembre: nella maggiore regione italiana per popolazione e quota nazionale del Pil (attorno a Milano) e in quella che ospita Roma capitale. Il test ha interessato circa un elettore italiano su quattro, a quattro mesi dall’insediamento del governo, dopo il varo della prima manovra annuale e in un periodo reso difficile dalla crisi geopolitica e dai suoi riflessi economici.



Bene: l’esecutivo Meloni non ha mostrato esitazioni nello sfruttare appieno un’espressione di consenso democratico per una mossa indubitabilmente poco popolare. Un passo da manuale, benché divenuto quasi raro in un’Italia sempre meno caratterizzata dalle regole di governo proprie di una democrazia elettorale. Il blocco della cedibilità di tutti i crediti fiscali di natura edilizia (non già oggetto di procedure definite) colpisce a raggio largo nell’elettorato: anzitutto le imprese del settore (e l’Ance aveva rinnovato anche negli ultimi giorni i rischi di stabilità per 25mila aziende). Ma lo stop gela le attese di centinaia di migliaia di italiani che – proprietari di una villetta o di un appartamento in un condominio in tutto il Paese – desideravano migliorare l’efficienza energetica delle loro abitazioni.



A tutti il governo ha opposto in via definitiva – con modalità di blitz – le riserve che avevano già portato l’esecutivo Draghi a frenare – e di fatto a sospendere – la cessione dei crediti da superbonus e quindi centinaia di migliaia di progetti. Con tre argomenti.

Primo: l’insostenibilità a medio termine di uno stimolo anti-recessivo/anti-Covid che aveva raggiunto un costo tendenziale di una cinquantina di miliardi per le finanze pubbliche. Secondo: il forte riflesso inflazionistico su materie prime e attrezzature edilizie, ancora precedente al rialzo dei prezzi (soprattutto energetici) provocato dalla crisi geopolitica. Terzo e non ultimo: l’emergere di vasti fenomeni di frode, non estranei alle attività illegali della criminalità organizzata. Il mix di motivazioni politico-economiche ha riassunto (anche nelle parole del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti) un giudizio politico tout court sull’operato del governo Conte 2, che ha deciso l’operazione superbonus nei primi mesi della pandemia.



La svolta ha preso forma, d’altronde, in una fase critica per i costi di gas ed elettricità e laddove la stessa Ue sta sollecitando con termini perentori la transizione ecosostenibile del parco edilizio. Se tuttavia Bruxelles e Strasburgo stanno varando provvedimenti a raffica traguardando l’arco di un decennio, i capi di Stato e di governo dell’Unione stanno mettendo sul tavolo “qui e ora” il ripristino dei parametri di stabilità economico-finanziaria. Il taglio “gordiano” di un bonus fiscale da sempre discusso, sembra valere una riforma: o almeno lancia da Roma verso i centri della governance europea – in tempi di sviluppo del Recovery/Pnrr – segnali di volontà e capacità di controllo delle dinamiche economico-finanziarie interne. È una mossa che non appare troppo diversa dalla “riforma Fornero” dell’autunno 2011: ma con la fondamentale differenza che a deciderla è stato un governo politico e non tecnico come allora; e non con la pistola puntata alla tempia dello spread a 600 e dell’austerity imposta da Ue e Bce.

Sarà interessante ora vedere se l’abbrivio dato dalle regionali – mentre alle europee 2024 mancano ancora 15 mesi – spingerà il governo a calare altre carte pesanti: indiziato numero uno è il reddito di cittadinanza, finora oggetto di un ridimensionamento prevalentemente programmatico.

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