Benzina e diesel addio, l’Europa vuole solo auto elettriche. La deadline è il 2035, così come è stato stabilito dal Parlamento europeo, che ha approvato l’accordo che rivoluzionerà la mobilità del Vecchio Continente e che impone, da quella scadenza in poi, di non produrre più auto endotermiche. Da allora non dovremo più stare attenti alle quotazioni del petrolio, ma a quelle del litio e del cobalto, delle materie prime necessarie per produrre le nuove automobili. Una prospettiva che preoccupa tutto l’automotive, per il quale si annunciano cambiamenti epocali che mettono a rischio un settore trainante dell’economia italiana e pongono grossi interrogativi dal punto di vista occupazionale.



“Il vincolo proposto è molto stringente” dice Roberto Bianchini, professore a contratto di finanza infrastrutturale e direttore dell’Osservatorio Climate Finance del Politecnico di Milano, Academic Fellow per la Bocconi e partner di Ref Ricerche e pone pesanti dubbi sulla realizzazione del piano europeo.

L’obiettivo dell’Unione Europea, ridurre le emissioni e quindi l’inquinamento con tutto quello che comporta, è condivisibile, ma i tempi e le modalità non rischiano di mettere in crisi una parte consistente della nostra economia?



Sicuramente l’obiettivo è ambizioso, ma ci sono ancora diversi problemi da risolvere, ad esempio il volume e il peso delle batterie, un limite tecnologico molto forte, che sicuramente verrà superato in futuro, ma questo futuro non si sa quanto è vicino. Le batterie agli ioni di litio hanno dei vincoli tecnici e fisici piuttosto importanti.

Quindi anche dal punto di vista tecnologico non siamo proprio così pronti?

Esatto, non lo siamo, più che altro perché il livello di efficienza delle auto elettriche rimane non ottimale: il motore è molto efficiente ma ciò che alimenta il motore è ancora in uno stadio iniziale di sviluppo. C’è poi una seconda tematica: l’attuale contesto tecnologico, ma anche l’incertezza su dove andrà la tecnologia, fa il paio con l’approvvigionamento delle materie prime che servono per realizzare la componentistica. E questo è un grosso problema. Magari in sede di Commissione europea, in sedi riservate, si sono fatte analisi, però apparentemente c’è un problema non indifferente di approvvigionamento di questi materiali da un lato, ma anche di filiera del riciclo e riuso dall’altro.



Ma di quali materie prime avremo bisogno?

Del cobalto, del litio, di tutte quelle che sono chiamate materie prime rare utilizzate nella componentistica delle auto elettriche. Si è già visto in passato, con lo sviluppo degli impianti fotovoltaici, che nonostante l’Europa, come anche l’Italia, sia andata avanti in termini di incentivazione, la filiera produttiva, ad esempio quella dei pannelli, si è sviluppata non in Europa. Allora era vista solo come perdita di opportunità in termini di filiera, ma adesso c’è anche il tema del rischio geopolitico.

Nel senso che litio e cobalto dobbiamo andare a prenderli in altri Paesi?

Dovremo rivolgerci o alla Cina direttamente o a Paesi in cui Pechino ha interessi molto forti. La Cina si è mossa con una politica industriale molto importante negli ultimi 15 anni, andando ad accaparrarsi le miniere o a stringere accordi con i Paesi africani in cui ci sono giacimenti di materie rare.

Quindi queste materie rare noi dobbiamo comprarle dai cinesi, direttamente o indirettamente che sia?

Ad oggi sì. Poi dipende dall’evoluzione tecnologica: se si sbloccherà una nuova tecnologia di batterie con materiali diversi cambierà qualcosa. Sicuramente la Cina ha fatto una politica di accaparramento di tutte le materie prime rare.

Il problema, comunque, non è solo l’approvvigionamento.

No, infatti non è ancora pronta una filiera del riciclo e riuso di queste materie prime. È il nodo della dismissione: quando le batterie vanno a fine vita utile come facciamo a utilizzare le materie prime rare che ci sono all’interno? Si può fare, ma non è ancora stata creata una filiera.

Potrebbe essere un’opportunità dal punto di vista industriale?

Certo, però la filiera va creata. E il 2035 è molto vicino.

C’è poi un problema di trasformazione della rete di distribuzione: come è possibile riattrezzare il sistema in tempi così brevi?

È il classico rischio di transizione ed è legato alla tecnologia. Le politiche o le decisioni prese creano un rischio quando una tecnologia, una materia prima o un’attività diventano obsolete a favore di altri player o di altre attività. Sicuramente c’è un problema di riconversione, soprattutto del settore automobilistico, non indifferente.

Ma l’automotive italiano, le grosse aziende ma anche quelle medie e piccole, è pronto ad affrontare questa sfida? C’è il pericolo di perdere per strada imprese e occupazione?

Tutta la filiera che produce componentistica, che produce per i motori endotermici, deve inevitabilmente cambiare modello di business, quindi l’indotto, ma anche la riconversione delle grandi aziende automobilistiche al 100% elettrico non sarà banale. È una sfida anche dal punto di vista del ricollocamento occupazionale o della riconversione della manodopera, anche in termini di formazione. Sicuramente quello della Ue è un obiettivo molto sfidante, la Commissione e il Parlamento hanno voluto dare un segnale. Non so se il contesto sia pronto. C’è sempre un doppio tema: se si aspetta che il contesto sia pronto probabilmente non ci si arriva mai, dall’altro un’accelerazione troppo forte rischia di creare degli squilibri, in termini di approvvigionamento, di dipendenza da Paesi terzi. È sempre difficile il bilanciamento tra queste due esigenze.

Oltre all’elettrico ci sono altre tecnologie che possono essere sviluppate? I biocarburanti, ad esempio, vanno in soffitta anche loro?

In realtà lo stop al motore endotermico blocca anche i biocarburanti. Stiamo parlando comunque di auto elettriche come light vehicles, veicoli leggeri, le auto usate per il trasporto persone, non i camion, il trasporto pesante, l’autotrazione, non i mezzi agricoli. Quella è una partita ancora aperta.

Anche l’idrogeno è fuori gioco? Per sviluppare il suo utilizzo ci sono anche stanziamenti nel Pnrr. 

La ricerca si sta muovendo soprattutto nei veicoli elettrici, l’idrogeno nell’autotrazione e nei veicoli leggeri è abbastanza problematico, forse qualcosa potrà essere applicato sui veicoli più pesanti, le navi.

Se lei fosse stato nella Commissione europea come avrebbe organizzato questa transizione per renderla graduale?

Bisogna essere sicuri che ci sia stata una valutazione approfondita, attraverso l’analisi costi-benefici che devono essere fatti ex ante. In queste occasioni si devono sviluppare analisi molto robuste per avere i pro e i contro di ogni decisione. Non so oggettivamente, in via riservata o a porte chiuse, quanto questa decisione sia stata guidata da un’analisi robusta dei costi e dei benefici. Me lo auguro, perché altrimenti ci può essere il rischio di squilibri, di dipendenza dalle materie prime e anche che in certe parti della filiera non si sia ancora pronti.

Resta comunque forte il rischio di dipendenza dalla Cina. 

Si stanno scoprendo giacimenti di materie prime rare anche in Europa, non ovviamente di dimensioni paragonabili a quelli scoperti nei Paesi africani. E il fatto che ad oggi non si sappia ancora quale sarà la tecnologia dominante crea sicuramente un’ulteriore incertezza.

C’è anche un problema geopolitico per il distacco dalla benzina, dal petrolio?

Ci sarà una riduzione della domanda che potrebbe anche essere un fattore positivo in termini di dipendenza dai Paesi produttori di petrolio, che sono Paesi instabili, con di fatto un oligopolio nell’estrazione. Non lo vedo come un fattore negativo. Diventare meno dipendenti dall’oil è un fattore assolutamente positivo.

Dal 2035 le auto benzina e diesel non verranno più prodotte, nel frattempo ci sarà un sistema misto: un altro problema da gestire?

Sì, non ci sarà più produzione ma resterà la possibilità di circolare con le vecchie macchine. Non verranno più prodotte ma saranno vendute e scambiate su mercati secondari come quello dell’usato.

(Paolo Rossetti)

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