Premetto che ho sempre trovato penoso l’utilizzo di creme sbiancanti per gente di colore, il volto di Michael Jackson metteva i brividi: dunque comprendo che la filiale indiana del gruppo Unilever abbia deciso di cancellare il termine “fair”, per connotare i prodotti che schiariscono la pelle. Sono assurdi, e ritengo non facciano affatto bene.



Così la L’Oréal ha stabilito che le sue creme sbiancanti non si chiameranno più white o light, o appunto fair, nel quadro delle iniziative mondiali contro il razzismo. Non “si chiameranno”, ma continueranno a esibirsi sul mercato. Una pagliacciata, che si aggiunge alle ennesime che pretendono di cambiare la realtà cambiando le parole.



Purtroppo non è così, e le campagne delle anime belle puzzano di opportunismo e di ipocrisia: ritirate i prodotti sbiancanti dal mercato, se ritenete che uniformare l’immagine dell’uomo, idealizzare un solo tipo di bellezza sia razzista. Se le ragazze nere continueranno a lisciarsi i capelli e torturarsi per avere la pelle più chiara con creme e belletti di altro nome, ci sentiremo più giusti e buoni? Che poi, diamine, un po’ di coerenza. In un tempo in cui il relativismo spinto esalta le mille possibilità di essere quel che vuoi, perfino uomo o donna o un po’ e un po’, a seconda della sensazione del momento, perché negare a una ragazza bianca i rasta neri e increspati e il total black della pelle (a prezzo anche qui di gravi patologie dermatologiche), o a una di colore di tingersi di biondo e ridursi le labbra, quando molte se le ingrossano?



Libertà massima, per tutti e su tutto.

Mi rendo conto che sto avviticchiandomi su una trave pericolante, perché anche il termine “di colore” è razzista, se identifica solo i neri: ma se usiamo “di colore” anche per i gialli o i bianchi non ci capiamo più niente, e allora dovremmo specificare: uomini e donne di colore bianco, giallo o rosso, come nei girotondi dei libri per bambini su cui siamo cresciuti, dove cinesini e pellerossa e africani e norvegesi si davano la mano tra mille bandierine. Perché mai nero dovrebbe essere un insulto? Ci si veste in nero per essere più eleganti e fascinosi, smagrisce, una berlina nera è simbolo di potere…ah già, le automobili.

Anche qui, cambiamenti importanti in corso. Se mai seguite la Formula 1, saprete che il team vincente di Louis Hamilton viaggia su una Mercedes argentata. Giammai, per il prossimo mondiale sarà nera, in omaggio alle lotte dei neri per la parità di diritti. Mah. Anche le auto dei mafiosi o degli ottimati cinesi sono nere, sicuri che si tratti di un simbolo distintivo di rispetto delle minoranze?

Specchietti per le allodole, o per i polli, che non siamo: sappiamo bene che l’uguaglianza delle persone non si ottiene vietando, e neppure imponendo modelli, che diventano a loro volta ghettizzanti. Schiarirsi la pelle è demenziale tanto quanto coprirsela di tatuaggi improbabili, o rifacendosi con la chirurgia plastica ogni parte del corpo. Assoggettarsi alle mode spersonalizza sempre, riduce la persona a immagine, e a immagine eterodiretta dal potere, che si tratti delle aziende cosmetiche o automobilistiche.

Conta l’educazione, per imparare a volersi bene, accettarsi così come siamo, e naturalmente imparare a lottare per l’eguaglianza, che significa pari opportunità, rispetto delle leggi che ci sono, della diversità, che sono tante e tutte belle e arricchenti. Le parole da sole non bastano, una tinteggiatura qua e là copre malamente, ma non muta la realtà: fatti, non parole.

Pensiamo ai nostri orrendi termini “ministra” e “assessora”? Forse che il loro uso ha permesso alle donne di mostrarsi più capaci degli uomini, se si tratta di pessime ministre, o di aumentare la stima e la considerazione verso personalità femminili al potere?