Mai tanta neve destinata a restare intonsa, immacolata, sprecata. Mai così paralizzata l’industria della montagna/inverno, annichilita dal virus e dai conseguenti Dpcm. L’ultimo decreto l’ha firmato ieri il Premier, e ha posto lo stop definitivo, almeno fino al 15 febbraio: impianti di risalita chiusi nei comprensori sciistici; possono essere usati solo da atleti professionisti e non, purché riconosciuti di “interesse nazionale” dal Coni, dal Comitato Italiano Paralimpico o dalle rispettive federazioni, per “permettere la preparazione finalizzata allo svolgimento di competizioni sportive nazionali e internazionali o lo svolgimento di tali competizioni, nonché per lo svolgimento delle prove di abilitazione all’esercizio della professione di maestro di sci”. E dal 15 febbraio? Da quella data in avanti, recita il Dpcm, gli impianti potranno riaprire ma “solo subordinatamente all’adozione di apposite linee guida da parte della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e validate dal Comitato tecnico-scientifico, rivolte a evitare aggregazioni di persone e, in genere, assembramenti”. Resta comunque il fatto che sempre fino al 15 febbraio (almeno) vige il divieto di spostamento tra regioni, anche tra quelle in fascia gialla.
Considerando che la Pasqua 2021 cadrà il 4 aprile, si potrebbe dunque prevedere una stagione sciistica di un mese e mezzo, sempre se le condizioni epidemiologiche lo dovessero consentire e in assenza di nuovi Dpcm restrittivi. Ma gli impiantisti erano già stati molto chiari: una riapertura degli impianti posticipata dopo il 18 gennaio (la data che inizialmente era stata prospettata) non consentirebbe la sostenibilità d’impresa. In pratica, sarebbero molto più alte le spese degli incassi. “Credo che a questo punto ben difficilmente qualcuno si azzarderà a rimettersi in moto”, conferma avvilita Valeria Ghezzi, la presidente Anef, l’associazione aderente a Confindustria che raggruppa la stragrande maggioranza degli impiantisti. Anche al netto dei pesanti investimenti che negli anni scorsi s’erano resi necessari per provvedere all’innevamento programmato, resterebbe troppo compressa e incerta la ministagione che si prospetterebbe, troppe difficoltà per le assunzioni – altrettanto incerte – degli stagionali, troppo condizionamento dalla precaria mobilità interregionale, troppo limitanti le regole che sarebbero imposte dal Cts. Il tutto, per di più, sempre in assenza del turismo straniero. E ancora in assenza di qualsiasi ristoro, mai giunto per gli stop del 2020.
Impianti chiusi, quindi, stagione mai iniziata e già finita, con l’intero quadrante alpino italiano in gravissime difficoltà: una lunghissima filiera da 120 mila posti di lavoro, che vale ben oltre dieci miliardi l’anno. Perché se restano chiusi gli impianti restano chiusi gli alberghi, se restano a casa i lavoratori di cabinovie e skilift restano a casa anche i camerieri e i cuochi dei ristoranti, i gestori delle baite, i commercianti che senza turisti abbassano le serrande. E Coldiretti aggiunge perfino il rischio esteso a rifugi e malghe, fino alla produzione casearia. “Dal lavoro di fine anno dipende buona parte della sopravvivenza delle strutture agricole che con le attività di allevamento e coltivazione svolgono un ruolo fondamentale per il presidio del territorio contro il dissesto idrogeologico, l’abbandono e lo spopolamento”.
Proprio lo spopolamento accennato da Coldiretti è forse il pericolo maggiore cui la montagna sta andando incontro con questo lockdown. Tanto da spingere gli assessori al turismo di Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Abruzzo, insieme ad Antonio Rossi sottosegretario Regione Lombardia, Daniel Alfreider vicepresidente Provincia Autonoma di Bolzano, Luigi Giovanni Bertschy vicepresidente Regione Autonoma Valle d’Aosta, Roberto Failoni assessore al Turismo Provincia Autonoma di Trento, Fabrizio Ricca assessore allo Sport Regione Piemonte, a riunirsi per licenziare un documento da presentare a Governo e Cts. “Per gli impianti di risalita condividiamo le richieste di ristoro che le associazioni di categoria hanno avanzato al Governo. Per quanto concerne le altre attività coinvolte dalle chiusure e i lavoratori stiamo studiando una proposta per ottenere ristori tempestivi, immediati e proporzionati. Stiamo parlando di una richiesta che ammonta ad alcuni miliardi di indennizzi. Altre nazioni che svolgono le medesime attività legate al turismo montano, come Svizzera, Francia, Germania e Austria, hanno già provveduto a salvaguardare questo comparto fondamentale”.
Oltre a quello di montagna, che il turismo in genere sia fondamentale davvero lo ha appena certificato anche Bankitalia, nel suo ultimo report riferito allo scorso mese di ottobre, verificando la ripresa della contrazione dei flussi sia in ingresso che in uscita. Rispetto a ottobre 2019, secondo le rilevazioni di via Nazionale, le spese dei viaggiatori stranieri in Italia, pari a 1.193 milioni, risultano inferiori del 70,4%, quelle dei viaggiatori italiani all’estero (572 milioni) del 75,5%; l’avanzo della bilancia dei pagamenti turistica è stato di 620 milioni di euro (era di 1.697 milioni nello stesso mese dell’anno precedente). Bankitalia sostiene che “in Italia l’improvvisa e drastica contrazione dei flussi turistici avrà significativi impatti sul Pil nazionale e conseguenze serie sulle imprese del settore e del suo indotto. Il turismo – scrivono gli esperti Bankitalia – rappresenta un importante settore dell’economia in Italia e nel mondo, con un forte potenziale in termini di crescita e di occupazione nonché di integrazione sociale e culturale”.
Oggi, però, le uniche speranze restano ancora appese alla vaccinazione. Con nuove possibilità, come il “patentino” per viaggiatori già vaccinati. «Noi confidiamo – dice Marina Lalli, presidente di Federturismo-Confindustria – in una rapida accelerazione della campagna di vaccinazione e nella realizzazione di un documento che permetta di potere iniziare a viaggiare possibilmente con la stipula di accordi governativi o mediati dalla Ue». Per poter contare almeno in un turismo prossimo venturo consapevole e vaccinato.