IL DDL CONTRO I NOMI FEMMINILI IN ATTI PUBBLICI VIENE SUBITO BLOCCATO DALLA LEGA: COSA È SUCCESSO AL SENATO

Con ogni probabilità non vedrà mai la luce il testo del senatore Lega Manfredi Potenti che puntava a vietare l’uso di nomi femminili nei documenti e negli atti pubblici: il solo accennare però del ddl ha scatenato una vasta polemica politica, chiusa poi stamane dall’intervento netto del board Lega con il capogruppo Massimiliano Romeo. «La Lega precisa che la proposta di legge del senatore Manfredi Potenti è un`iniziativa del tutto personale», si legge nella nota giunta all’Adnkronos e alle altre agenzie.



Le stesse fonti del Carroccio sottolineando come tutti i vertici del partito, a cominciare dallo stesso Romeo, «non condividono quanto riportato nel Ddl Potenti il cui testo non rispecchia in alcun modo la linea della Lega che ne ha già chiesto il ritiro immediato». Dal Pd al M5s, passando per AVS e fino addirittura all’ex compagna di Berlusconi, Francesca Pascale, il provvedimento che puntava a stoppare l’uso di nomi femminili come “Avvocata”, “sindaca”, “assessora” e quant’altro era visto come un ingente «attacco ai diritti civili» e al linguaggio «inclusivo». «La Lega ha costretto il senatore del Carroccio Manfredi Potenti a ritirare il disegno di legge ‘Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere», denuncia la dem Valeria Valente, aggiungendo come «grazie alle proteste di tutte le opposizioni. Ne siamo ovviamente contenti, ma a tutte e tutti dico: non sottovalutiamo il problema».



COSA PROPONEVA IL TESTO DI POTENTI (LEGA) CONTRO I TERMINI ‘AVVOCATA’ E ‘SINDACA’: “SOLO INIZIATIVA PERSONALE”

Il testo originario presentato dal senatore della Lega Manfredi Potenti mirava appunto a rendere i nomi femminili “nuovi” negli atti pubblici praticamente inesistenti: «il genere femminile per neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali, alle onorificenze, ed agli incarichi individuati da atti aventi forza di legge», si leggeva nel ddl presentato a titolo personale come una bozza dal senatore leghista.

Secondo l’idea originaria, la violazione di tali obblighi avrebbe comportato una multa amministrativa dai 1000 ai 5mila euro massimi: «La presente legge intende preservare l’integrità della lingua italiana ed in particolare, evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici, come ‘Sindaco’, ‘Prefetto’, ‘Questore’, ‘Avvocato’ dai tentativi ‘simbolici’ di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo”», si legge ancora nella bozza oggi già ritirata dalla stessa Lega dopo le polemiche sollevate da Potenti. Secondo il senatore però la legittima battaglia per la parità di genere non deve sconfinare in neologismi di fatto «irrispettosi delle istituzioni», e per questo riteneva necessario «un intervento normativo che implichi un contenimento della creatività nell’uso della lingua italiana nei documenti delle istituzioni».



L’obiettivo della legge, che ad ora non viene appoggiata da nessuno neanche nella maggioranza, prevedeva di preservare la PA «dalle deformazioni letterali derivanti dalle necessità di affermare la parità di genere nei testi pubblici». Il ddl Potenti, definito dalla Lega come di mera «iniziativa personale», prevedeva infine il divieto alle forme di “sperimentazione linguistica”, mentre ammetteva l’uso della doppia forma o il maschile universale da intendersi solo se «neutro e senza alcuna connotazione sessista».