In questi giorni il dibattito politico-economico si sta concentrando sul Reddito di cittadinanza e sulla sua abolizione, effettuata dal Governo Meloni. Se da un lato è stata decisa la cessazione della misura sostenendone l’inefficacia, dall’altro si è cercato di difenderla almeno per la parte riguardante l’erogazione di sussidi a una precisa fascia della popolazione. Al di là delle diatribe politiche e degli schieramenti di partito, quello che occorre chiedersi è se la misura abbia funzionato. Il Rdc, infatti, non è stato ideato come un sussidio di Stato, al contrario è stato presentato come una politica attiva per il lavoro (come dimenticarsi i famosi navigator?); pertanto va valutato in base alla sua effettiva capacità di creare lavoro per i percettori (cioè i disoccupati che presentavano determinati parametri). Va altresì ricordato che questa era una misura pensata come una sorta di “cuscinetto” per chi era uscito dal mondo del lavoro e che non riusciva immediatamente a rientrarvi.



I dati disponibili mostrano come solo il 20% dei percettori abbia ottenuto un lavoro, di cui il 60% a termine e a tempo parziale (cfr. Il Sole 24 Ore, luglio 2022). Il suo costo inoltre è stato, annualmente, di circa 8 miliardi di euro da marzo 2019 a dicembre 2022, con uno stanziamento di un altro miliardo nel 2023. Secondo gli ultimi dati disponibili, la spesa è stata di 20 miliardi complessivi fino al 2022, con appena il 20% dei percettori che hanno trovato lavoro; in altre parole, 4 miliardi di euro sono serviti per creare 400mila posti di lavoro, il resto (16 miliardi) è andato esclusivamente in sussidi senza un ritorno in termini di occupazione e, quindi, di produttività. Questi numeri potrebbero bastare per affermare che il Reddito di cittadinanza non è stato lo strumento adatto a creare lavoro, venendo quindi meno allo scopo per cui è stato istituito.



Per quanto riguarda la lotta alla povertà è invece risultato certamente utile, anche se questo non è mai stato il suo scopo primario. La pandemia ha nascosto alcuni evidenti deficit in termini di ricollocamento nel mercato del lavoro, mentre l’unica “parte” del Rdc operativa in quel frangente di crisi è stata l’erogazione di sussidi a fondo perduto a persone senza lavoro e in difficoltà (al netto delle truffe).

Il prossimo passaggio previsto dal Governo è la rimodulazione del target cui è destinato il Reddito di cittadinanza (al momento il Reddito di cittadinanza andrà ancora ai «nuclei familiari al cui interno vi siano persone con disabilità, minorenni o persone con almeno sessant’anni di età», come previsto dalla circolare Inps 61 del 12 luglio 2023), dopodiché entreranno in vigore l’indennità di supporto alla formazione e al lavoro (settembre 2023) e l’assegno di inclusione (gennaio 2024).



Certamente l’abolizione prevista per il 1° agosto pone alcune lecite domande: anche se la revoca del Rdc è stata annunciata con la Legge di bilancio dello scorso dicembre 2022, rimane da capire come accompagnare (o meglio, non abbandonare) fuori da 4 anni di assistenzialismo soggetti idonei a lavorare. Inoltre, come giungere all’obiettivo che il Rdc non ha saputo realizzare?

A tal proposito è utile citare un esempio di politica attiva per il lavoro che è riuscita, con un discreto successo, ad aiutare nel momento di maggior difficoltà una larga fascia della popolazione della diocesi di Milano: il Fondo Famiglia e Lavoro. Inaugurato nel 2008 per fronteggiare la crisi finanziaria dall’allora arcivescovo Tettamanzi, è proseguito ed è stato implementato dai suoi successori (Scola e Delpini) ed è stata affidata l’applicazione operativa alla Caritas diocesana. Oltre all’erogazione a fondo perduto in cui si è articolato una prima fase emergenziale, il Fondo ha sempre più cercato di instaurare rapporti con il mondo del lavoro e delle imprese, evitando così di creare una dipendenza dei richiedenti, cogliendo invece il desiderio fondamentale di dignità di chi aveva perso il lavoro, riuscendo così a connettere domanda e offerta.

Invece di condannare gli assistiti all’interno di una misura assistenzialistica, rendendoli dipendenti da questa, il Fondo ha cercato di rendere autonome le persone richiedenti, così da farli uscire da una condizione di disagio: quello che dimostra quest’esperienza ambrosiana è più che con l’assistenzialismo (che entro certi termini può essere necessario), è creando lavoro che si combatte la povertà.

Riproporre su scala nazionale l’idea della realtà milanese, collaborando con il mondo delle imprese e con il Terzo settore, in particolare con la Caritas, può essere una soluzione per implementare politiche contro la povertà e, allo stesso tempo, per creare le condizioni per favorire l’ingresso nel mondo del lavoro.

Creare una misura contro la povertà degna di questo nome è doveroso, ma questa non può essere confusa con altri tipi di sostegni, né essere una bandiera ideologica. Molti nuclei familiari dipendono da questo. In fondo, anche la lotta alla povertà non è che un ramo di politiche familiari all’altezza, perché nessuno resti indietro.

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