Il 24 giugno 1943 Mussolini parlò alla direzione del partito, senza prevedere che sarebbe stato il suo ultimo discorso da primo ministro. Il testo fu reso pubblico solo il 5 luglio ed è ricordato per la famosa frase “Bisogna che non appena questa gente (gli angloamericani, nda) tenterà di sbarcare, sia congelata su questa linea che i marinai chiamano del bagnasciuga”. Era l’ultima sparata del Duce, propaganda lontana dalla realtà di una difesa della Sicilia raffazzonata e velleitaria. Al fondo vi era un colossale errore di valutazione: pensare che i siciliani, reclutati in massa nelle divisioni “Aosta” e “Assietta” e nelle scalcinate divisioni costiere, avrebbero difeso la propria isola. In realtà il morale dei siciliani era sempre più basso per i continui bombardamenti che, dal 1° al 10 luglio 1943, arrivarono a un’intensità terrificante con 36 incursioni diurne e 117 notturne.



Il 10 luglio la “Grande Armada” navale anglo-americana giunse davanti alle coste siciliane nelle prime ore del mattino dopo aver superato una furiosa tempesta. Si può ben immaginare quale fu l’impressione dei difensori delle spiagge siciliane quando videro all’orizzonte 280 navi da guerra, 1.800 mezzi da sbarco e 2.590 navi da trasporto. Questa imponente manifestazione di strapotenza era anche la conseguenza del timore che gli Alleati avevano per gli italo-tedeschi dopo le sanguinose battaglie in Tunisia e le performances poco brillanti dei propri eserciti. Timori che furono da subito confermati quando mancanza di coordinamento e di addestramento fecero fallire sanguinosamente i lanci dei paracadutisti angloamericani.



Nella notte tra il 9 e il 10 luglio, tuttavia, si verificarono eventi che facilitarono di molto lo sbarco alleato. La grande piazzaforte di Augusta disponeva di artiglierie potenti e numerose, fra cui due pezzi da 381 in grado di ridurre in frantumi qualsiasi nave avversaria. Certamente lo scontro con le corazzate inglesi avrebbe portato a un durissimo combattimento ed era prevedibile che la città sarebbe stata distrutta. Eppure niente può giustificare il fatto che l’ammiraglio Priamo Leonardi, comandante della piazza, e il console De Pasquale, comandante della Milmart, l’artiglieria della milizia fascista, diedero ordine di smantellare le installazioni e i pezzi d’artiglieria e questo alle 20 del 9 luglio, sei ore e mezza prima dello sbarco dei commandos nel porto e due ore prima dell’inizio dell’invasione. Tali ordini giunsero ai reparti nel corso della notte e si verificarono i primi sbandamenti che, alle 11 del mattino, divennero sempre più massicci. Nel corso della giornata, mentre gli inglesi erano ancora lontani, vennero distrutti batterie, postazioni, depositi, persino un treno armato ma, si badi, le installazioni portuali rimasero intatte così che i britannici poterono utilizzarle nel giro di appena tre giorni.



All’alba del 10 luglio iniziarono gli sbarchi delle truppe d’assalto. La V e la 50esima divisione britanniche presero terra fra Capo Murro di Porco e Noto. L’obbiettivo della V divisione era la conquista di Cassibile per poi puntare su Siracusa, che venne raggiunta quella stessa sera, e Augusta. Spesso è stata stigmatizzata la scarsa resistenza delle divisioni costiere, ma va ricordato che contro le due divisioni britanniche citate vi era solo una parte della 206esima divisione che, in alcuni settori, provò a resistere, come a Santa Venerina. La 50esima divisione raggiunse Avola mentre la formidabile I divisione canadese puntava verso Ragusa per saldarsi con gli americani, sbarcati alla propria sinistra. Vi era, inoltre la 231esima brigata che conquistò Marzameni. Qui il sottotenente Vincenzo Barone del 243esimo battaglione costiero, che era già stato ferito durante un bombardamento aereo, rimase a combattere sulla spiaggia di Marzameni con il proprio plotone, incitando i suoi uomini a resistere. Caddero tutti, uno dopo l’altro, e quando la mitragliatrice pesante finì le munizioni, Barone cercò di respingere gli inglesi lanciando bombe a mano fin quando una sventagliata lo colpì in piena faccia, uccidendolo. Complessivamente si può osservare come, al contrario di quanto comunemente si crede, vi furono numerosi casi di resistenza accanita e persino eroica: il punto è che la diserzione di tanti, troppi reparti li rese del tutto inutili.

Più a ovest gli sbarchi americani ebbero, almeno inizialmente, uguale successo. La 45esima divisione prese Scoglitti e puntò sugli aeroporti di Comiso, la I prese terra a Gela e la III a Licata. Anche in questo caso la resistenza italiana fu scoordinata ed episodica e le artiglierie navali ebbero buon gioco nell’annientare i pochi capisaldi che avevano cercato di impedire l’assalto americano. Gli ordini impartiti dal generale Guzzoni di distruggere le installazioni portuali vennero ignorati ad eccezion fatta dell’esplosione di una mina che, incredibilmente, mise fuori uso il treno corazzato che doveva difendere il porto di Licata. Nei primi giorni si alternarono fenomeni di sbandamento e massicce defezioni ad altri di resistenza estrema come a Gela, nella battaglia tra i rangers americani del colonnello Darby e il 429esimo battaglione costiero del maggiore Rubellini. La battaglia fu feroce e i rangers non fecero prigionieri. Il tenente Filippo Lembo tentò di fermare gli americani in via Giacomo Navarra: i suoi uomini caddero tutti, uno dopo l’altro, ma Lembo continuò a sparare fino a esaurire le munizioni. Catturato venne massacrato e mutilato a pugnalate dai rangers, furibondi per le perdite subite.

I rangers riuscirono anche ad annientare un contrattacco di un gruppo corazzato italiano composto da carri armati francesi preda di guerra Renault 35, 16 L3 (le tristemente famose “scatolette di sardina”) e alcuni blindati Fiat della Grande Guerra. Il gruppo venne preso di mira dai cannoni dell’incrociatore “Boise” e perse parecchi mezzi, ma 5 carri Renault riuscirono a penetrare nell’abitato di Gela: privi del sostegno della fanteria vennero distrutti dai pezzi anticarro e dai bazooka dei rangers e lo stesso colonnello Darby ne distrusse uno personalmente.

I contrattacchi delle divisioni “Hermann Göring” e della “Livorno” (l’unica divisione italiana con addestramento e armamento quasi decenti) furono annientati dalle artiglierie navali alleate. Fu qui che si vide, con tragica ironia, a cosa servivano gli “otto milioni di baionette” vantati da Mussolini all’inizio della guerra. L’11 luglio gli uomini della “Livorno” attaccarono davvero alla baionetta. Il III battaglione del 34esimo reggimento travolse le posizioni avanzate americane ai Poggi Frumento e a Molinazzo e alle 8 del mattino anche la “Göring” partì all’attacco. Ma gli incrociatori “Savannah” e “Boise”, insieme al cacciatorpediniere “Glennon” schiacciarono sotto un diluvio di granate sia i corazzati tedeschi sia la fanteria italiana. Si narra che, dopo l’intervento degli incrociatori, sul campo di battaglia erano visibili corpi umani appesi agli alberi, scagliati via dallo spostamento d’aria. A sera la “Göring” doveva ritirarsi dopo aver perduto 50 carri e 600 uomini mentre la “Livorno” cessava praticamente di esistere con 2mila uomini ancora in grado di combattere su 11.400 effettivi.

I contrattacchi italiani nella zona di Licata, effettuati contro la III divisione americana, ebbero andamento simile. Nelle prime ore dell’11 luglio una colonna d’attacco comandata dal colonnello Venturi si scontrò con una task force composta da rangers e da fanti del 15esimo reggimento. La battaglia si svolse a Campobello di Licata e vide tra i protagonisti un veterano, già più volte decorato al valore. Il generale Enrico Francisci era ufficiale di collegamento fra il Comando della VI armata e i reparti della Milizia, veterano della Grande Guerra e della campagna d’Etiopia, in Spagna era stato il comandante di una delle colonne che avevano combattuto a Guadalajara e aveva partecipato a tutte le campagne della guerra mondiale. Francisci, all’alba dell’11 luglio, quando era iniziato il contrattacco di una nostra forza corazzata, si era portato a piedi vicino al semovente più avanzato e una granata nemica, sparata da distanza ravvicinata, lo colpì in pieno. Le divisioni “Assietta”, “Aosta” e “Napoli” cercarono di contrastare gli angloamericani ma furono quasi annientate dalla superiore potenza di fuoco, mentre paracadutisti inglesi e tedeschi venivano lanciati sul ponte di Primosole e si combattevano ferocemente.

Anche Agrigento era caduta lo stesso giorno, ma la conquista dell’aeroporto di Biscari costò parecchie perdite al 180esimo reggimento del colonnello Middleton. Può darsi che sia stato il desiderio di vendetta a spingere il capitano John Compton e il sergente maggiore Horace West all’assassinio deliberato di 73 prigionieri italiani a Biscari. Va pure tenuto presente che, prima dell’invasione, il generale Patton aveva incoraggiato pubblicamente i suoi uomini a essere spietati e a non fare prigionieri. Fu Omar Bradley, comandante del II corpo d’armata e scrupoloso secondo in comando di Patton, a mandare davanti alla corte marziale i due criminali. Questi eccidi avvennero anche a Comiso, dove vennero assassinati 60 prigionieri italiani e 50 tedeschi e a Caltagirone (29 italiani e 4 tedeschi). Sulle ragioni di tale comportamento da parte americana si possono fare solo congetture. È possibile che la feroce resistenza offerta dagli italiani in Tunisia e, parallelamente, la frustrazione derivante dagli insuccessi subiti, abbia spinto gli americani – e Patton più di tutti – a rispondere con spietatezza, cercando di aumentare la combattività delle truppe.

Agrigento cadde il 15 luglio e all’1.45 di quello stesso giorno il generale Guzzoni ordinò il ripiegamento dei resti della 15esima panzer e della “Göring” verso la zona nordorientale dell’isola, insieme ai resti della “Livorno”. “Aosta” e “Assietta”, invece, erano destinate a difendere la linea delle Madonie. Come si è già detto, queste due divisioni perdevano reparti ogni volta che si muovevano, dissanguate dalle diserzioni.

Si può dire che, già dal 15 luglio, l’esercito italiano non esisteva più come organismo combattente. Certo, la campagna sarebbe ancora durata quasi un mese e ancora molti soldati italiani sarebbero caduti nella lotta. Ma il punto è che con le divisioni costiere dissolte e 4 divisioni mobili distrutte o ridotte ai minimi termini, la difesa della Sicilia era affidata quasi esclusivamente ai tedeschi. L’esercito italiano, che aveva avuto il compito di innalzare il Paese al rango di grande potenza, era rimasto schiacciato sotto il peso di una tale missione e non sarebbe stato mai più il protagonista della storia patria.

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