Al lettore che avrà occasione di andare a La Spezia si consiglia una visita al Museo Navale, situato all’arsenale. Un museo di impianto tradizionale con molti cimeli e modelli: un museo. Cose vecchie. Ma per chi conosce la storia di quei reperti, quella visita può diventare un pellegrinaggio. Già all’inizio si viene sorpresi dalla presenza di un gran pezzo dello scafo del sommergibile Scirè, affondato nell’estate del 1942 al largo di Haifa.



Nel 1984 furono recuperati dei pezzi del battello che andarono a La Spezia, al Vittoriano a Roma e all’arsenale di Venezia. Un’operazione costosa e difficile, compiuta dai nostri incursori e che oggi può sembrare un lusso inutile: ma in quei pezzi di metallo c’è molto di più e oggi si proverà a raccontarlo a chi ancora non sa cosa accadde ad Alessandria la notte del 19 dicembre 1941.



Nell’autunno di quell’anno la guerra nel Mediterraneo volgeva al peggio per l’Italia, tanto che il X corpo aereo tedesco fu inviato in Sicilia ad appoggiare la nostra aviazione. Alcuni U-boote tedeschi passarono lo stretto di Gibilterra ed entrarono in azione con l’addestramento e la superiorità di mezzi che facevano dei sommergibilisti tedeschi i maestri indiscussi della guerra sottomarina.

Il 13 novembre il sommergibile tedesco U-81 affondava la portaerei Ark Royal e il 25 la corazzata Barham veniva colpita in pieno dai siluri dell’U-331. La grande nave si inclinava a babordo e, mentre stava per rovesciarsi, esplodeva in modo apocalittico, portando con sé in fondo al mare quasi tutto l’equipaggio. La situazione dei convogli per la Libia era così disperata che per rifornire l’armata italo-tedesca furono adoperati anche dei sottomarini, persino cacciatorpediniere e incrociatori leggeri. Le navi erano così stipate di munizioni e benzina per aerei da essere delle bombe galleggianti. In più i ponti erano così ingombri da non poter neppure manovrare le artiglierie.



E fu così che il 13 dicembre gli incrociatori Alberico da Barbiano e Alberto di Giussano caddero in un agguato al largo di Capo Bon ed andarono a fuoco come zolfanelli. L’ammiraglio di divisione Antonino Toscano, che si trovava a bordo del da Barbiano, rimase gravemente ferito quasi subito e restò a bordo della nave scomparendo tra i flutti, condividendo il destino del capitano di vascello Giorgio Rodocanacchi, che aveva ceduto il proprio salvagente a un marinaio. Sotto coperta, il tenente Franco Storelli cercava di far funzionare le caldaie della nave per permettere un residuo di manovra, nonostante il vapore che si sprigionava rendesse l’ambiente irrespirabile: anch’egli scomparve nell’affondamento.

L’unica offensiva possibile, per la Marina italiana, venne affidata agli incursori della X Mas. Nella più totale segretezza e senza tralasciare alcun particolare, vennero preparati tre siluri a lenta corsa (Slc) e furono selezionati i componenti della spedizione. A bordo del sommergibile Scirè, comandato dal capitano Junio Valerio Borghese, sarebbero saliti gli incursori col più alto grado di preparazione per una missione che poteva rivelarsi decisiva per le sorti del conflitto. Gli equipaggi dei “maiali” erano i seguenti: tenente di vascello Luigi Durand de La Penne e capo palombaro Emilio Bianchi; capitano del genio navale Antonio Marceglia e sottocapo palombaro Spartaco Schergat; capitano delle armi navali Vincenzo Martellotta e capo palombaro Mario Marino. Le probabilità di tornare erano così basse che agli incursori fu consigliato di fare testamento e impacchettare le proprie cose in modo da consegnarle ai parenti. Come norma, nessun ufficiale del gruppo doveva essere sposato per evitare debolezze e ripensamenti ma Durand De La Penne la pensava in altro modo. “Non mi sorrideva – disse – l’idea di abbandonare questo mondo senza lasciare un figlio dietro di me”. Così, in gran segreto, sposò una bella ragazza genovese, Valeria Buti, prima di tornare in servizio. 

Il 3 dicembre lo Scirè salpava da Spezia e iniziava il suo viaggio verso la base di Lero nel Dodecaneso, nel Mediterraneo orientale, mentre gli operatori vi sarebbero giunti in aereo. Venne presa ogni precauzione per mantenere la segretezza dell’operazione e il 14 dicembre il sommergibile partiva alla volta di Alessandria. L’ultimo tratto della manovra di avvicinamento venne compiuta strisciando sul fondale, molto, ma molto lentamente, fino a che, verso la sera del 18, il sommergibile si adagiò sul fondale a una profondità di appena 15 metri.

Venne data quota periscopio e Borghese esplorò attentamente i dintorni per poi emergere completamente e salire in torretta. Il faro di Alessandria era a poco più di un miglio davanti a lui, la notte era buia e il mare calmissimo. Fino a quel momento, un’operazione perfetta. Gli operatori, già in muta da sub, cominciarono a uscire dal battello, ognuno accompagnato dal tradizionale e scaramantico calcio nel sedere sferrato da Borghese. 

Nel buio della notte, solo sei teste emergevano dall’acqua mentre i motori elettrici dei “maiali” filavano a tutta forza. Tutto andò bene fino alla prima sosta, a 500 metri dal faro di Ras El Tin dove gli operatori si fermarono per fare uno spuntino a base di sandwich di pollo e piccole bottiglie di champagne. Iniziava ora la parte più difficile ossia il superamento delle ostruzioni. Come se non bastasse, una grossa imbarcazione faceva la ronda davanti agli sbarramenti e tirava cariche di profondità che, nonostante la distanza, infliggevano forti scosse agli incursori. Quando la barca si fu allontanata i tre maiali puntarono verso le ostruzioni per tagliarle con le cesoie idrauliche ma, giunti a quel punto, si accorsero che le maglie erano collegate con allarmi sonori e cariche esplosive. Aprirsi un varco senza farsi scoprire era praticamente impossibile e Durand de la Penne stava per passare comunque all’azione quando le luci del porto si accesero e il faro si illuminò. Erano stati scoperti? No, si trattava di tre cacciatorpediniere britanniche che rientravano alla base e le ostruzioni vennero rimosse. Bisognava prendere una decisione immediatamente e i tre equipaggi si lanciarono in coda al secondo caccia, manovrando in modo da non finire triturati dalle eliche e non essere investiti dalla prua della nave serrafila. Per qualche minuto di altissima tensione i maiali stettero in formazione strettissima, in mezzo alle navi inglesi per poi separarsi e tornare nel buio più fitto. 

Martellotta e Marino avevano il compito di far saltare in aria una grossa petroliera, la Sagona, con la speranza di provocare un incendio che si propagasse a tutta la base.  Martellotta iniziò a star male e dare di stomaco, così che dovette liberarsi del boccaglio. Fu quindi Marino a minare la petroliera, accanto alla quale stava ormeggiato il caccia Jervis. Questa operazione richiedeva forza, abilità e un coraggio a tutta prova. Bisognava staccare la testata esplosiva da 300 chili, agganciare i cavi che la sostenevano alle alette di rollio sui fianchi della nave, così che l’esplosione avrebbe sfondato l’opera viva. Marino riuscì nell’operazione e i due poterono emergere, fare a pezzi il proprio equipaggiamento, indossare uniformi da fatica sotto le quali avevano quelle della Regia Marina e cercare di raggiungere un’imbarcazione con cui recarsi a un sommergibile che li attendeva a 10 miglia dal Delta del Nilo. Un piano di fuga quasi irrealizzabile, ma non era possibile fare di più ed era comunque necessario dare a questi uomini la speranza di poter sfuggire alla cattura.

Contemporaneamente Marceglia e Schergat individuavano la Queen Elizabeth, superavano le reti antisiluri e minavano la corazzata. La missione era conclusa alle 3:15 e anche loro potevano cercare di darsi alla fuga. Molto più complicata e avventurosa la vicenda di Durand De La Penne e Bianchi. De La Penne ebbe problemi di infiltrazioni d’acqua nella tuta e cominciò a soffrire il freddo per la prolungata immersione. De La Penne sentiva che le forze lo stavano abbandonando e così, per far prima, decise di scavalcare le ostruzioni anziché tranciarle. Alle 2:19 il suo maiale era a trenta metri dalla Valiant ma, proprio allora, un cavetto d’acciaio bloccò l’elica e il siluro precipitò sul fondo, a 17 metri di profondità. De La Penne si girò intorno e non vide più Bianchi che era svenuto ed era tornato in superficie. Così da solo, in condizioni fisiche precarie, il giovane tenente di vascello staccò la testata di tre quintali e la trascinò un centimetro per volta verso la corazzata per 70 metri, spingendo, tirando, mentre la maschera si appannava, nel buio più totale. Certo c’era la bussola, ma non riusciva più a vederla. Infine riuscì a sentire il rumore di una pompa della grande nave e lì si diresse, sempre trascinando la carica d’esplosivo fino a porla sotto la carena della corazzata. Gli restavano solo le forze per spolettare e riemergere e così fu. Una volta a galla vide Bianchi attaccato a una boa. I due furono individuati dai marinai di guardia e catturati immediatamente. I marinai inglesi derisero i due italiani, credendo che la loro missione fosse fallita ma De La Penne sussurrò a Bianchi che, nel giro di tre ore, gli inglesi avrebbero avuto un’opinione diversa sugli italiani.

Erano le 3:30 e l’esplosione era prevista per le 6:00. Rilasciate le proprie generalità, i due si rifiutarono di dire altro sulla propria missione e il capitando di vascello Morgan li fece rinchiudere nella cala, nel punto più basso della nave. Alle 5:50 De La Penne fece chiamare il comandante della nave e lo avvertì che la carica stava per esplodere ma Morgan lo fece riportare nella sua cella. Alle sei del mattino tre esplosioni quasi simultanee fecero sussultare il porto di Alessandria. La petroliera saltò in aria e il caccia Jervis venne gravemente danneggiato, ma non si verificò l’incendio programmato. Sulla Queen Elizabeth l’ammiraglio Cunningham, comandante della flotta del Mediterraneo, fece un salto di un metro ricadendo pesantemente insieme al proprio stato maggiore. Sulla Valiant l’esplosione fu così violenta da scardinare la porta della cella di Durand De La Penne che, poco dopo viene trasferito a terra con Bianchi per iniziare la prigionia. Quanto a Martellotta e Marino furono fermati quasi subito dalla polizia egiziana e consegnati agli inglesi mentre Marceglia e Schergat riuscirono ad allontanarsi da Alessandria spacciandosi per marinai francesi e a prendere un treno per Rosetta, sul Delta del Nilo. Qui passarono la notte in un alberghetto ma, mentre cercavano un’imbarcazione, vennero arrestati dagli egiziani e consegnati agli inglesi. 

Le due corazzate britanniche, sebbene rimesse a galla, non avrebbero più partecipato al conflitto. Quella stessa notte anche la Forza K incappava in uno sbarramento di mine italiane presso Tripoli e veniva quasi totalmente distrutta. Il Mediterraneo non era più dominato dalle navi britanniche ma ciò che conta di più è che quell’impresa, da allora e fino quando se ne avrà memoria, testimonia di cosa siano capaci gli italiani. E quel relitto nel museo di La Spezia può essere visto con occhi nuovi e colmarci di un’energia e di una commozione prima sconosciute.

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