Più volte, su queste pagine, abbiamo segnalato la rinascita di un revisionismo storico consistente in una tendenza assolutoria del fascismo e, in particolar modo, della figura di Benito Mussolini. Un adagio non nuovo ma che, in mancanza di efficaci e puntuali argomentazioni contrarie, sta diventando mentalità comune è quello per cui il Duce avrebbe fatto tutto bene salvo allearsi con la Germania e perdere la guerra. Un assunto così semplice da comportare diversi corollari: ad esempio, che se l’Italia avesse vinto la guerra saremmo tutti fascisti e che gli italiani hanno abbandonato Mussolini perché “corrono in aiuto dei vincitori”.



Poveri italiani! Poveri i nostri nonni e bisnonni che, dopo aver subìto i disastri della guerra e aver fatto rinascere un paese distrutto, devono sentirsi dileggiare da morti come voltagabbana della peggior specie!

Partiamo da un esempio paradossale: se lo sbarco in Normandia si fosse risolto in un colossale fallimento, Roosevelt avrebbe ugualmente vinto le elezioni nel novembre del 1944? Forse Dewey o qualche altro candidato, magari un Charles Lindbergh isolazionista e filonazista sarebbe divenuto presidente e avrebbe chiesto la pace separata. Fantasie ucroniche? Forse, ma coerenti col fatto che gli Stati Uniti erano e sono una democrazia. E allora perché un dittatore come Mussolini doveva godere di maggiori vantaggi politici rispetto a un presidente americano, soprattutto dopo aver dimostrato di voler assumersi responsabilità personali così enormi (come nell’attacco alla Grecia) da essere inversamente proporzionali alle proprie competenze militari e di politica internazionale?



Con l’articolo di oggi iniziamo un viaggio nell’Italia di ottant’anni fa per capire come questa è cambiata nel corso di soli tre anni, passando dal ruolo di grande potenza a paese occupato e campo di battaglia di opposti eserciti, al nadir assoluto della propria libertà e prosperità: a comprendere il perché della Resistenza.

Si può cominciare col dire che fu la svolta totalitaria di Mussolini a trasformare il fascismo dall’interno, a partire dal 1937. L’avvicinamento alla Germania vista come potenza emergente e vincente portò alle leggi razziali che, nello stesso movimento fascista, erano una novità assoluta e sconvolgente, soprattutto per i tanti ebrei iscritti al partito e che si erano battuti con valore nelle guerre di Etiopia e di Spagna. Fu Mussolini ad approvare un Patto d’acciaio con la Germania che non dava all’Italia alcuna garanzia contrattuale contro le continue violazioni di quel patto da parte nazista. L’entrata in guerra del 10 giugno 1940 fu la conseguenza logica di quelle scelte, nell’illusione che l’Italia avrebbe condotto una “guerra parallela” mentre sempre Mussolini continuava a fortificare il confine con l’Austria con lavori che sarebbero andati avanti fino a tutto il 1940: questo per far capire quanto si fidasse dell’alleato.



Una volta entrata in guerra, l’Italia avrebbe potuto e dovuto compiere offensive decisive contro l’impero britannico, ma lo stato pietoso delle nostre forze armate (anche questo dovuto alle scelte di Mussolini che aveva licenziato chi, come il generale Baistrocchi, lo aveva avvisato delle carenze fin dal settembre 1936) sconsigliò ogni offensiva, a parte la conquista della Somalia britannica nell’agosto 1940.

Nel settembre di quell’anno apparve chiaro che i tedeschi non sarebbero sbarcati in Gran Bretagna e che la guerra sarebbe continuata. Fu allora che il Duce volle e pretese l’attacco alla Grecia, superando di forza le deboli opposizioni di quella trista congrega di “yes men” che erano i nostri vertici militari. Il 28 ottobre 1940 le forze armate italiane varcavano il confine greco nell’illusione di aver partita vinta. E invece le nostre dieci magre divisioni avevano effettivi equivalenti alla metà dell’esercito greco. Fu la sconfitta, o meglio, una serie di sconfitte brucianti, subite su montagne inospitali,  in un clima terrificante, senza appoggio aereo, con porti albanesi che non avevano capacità di trasportare uomini e materiali sufficienti per frenare l’avanzata dei greci.

Infatti venivano portati reparti slegati, pezzi di divisioni, senza artiglieria e comandi, destinati a tappare le falle dello schieramento senza equipaggiamento, senza logistica, senza munizioni. E Mussolini fu così sfrontato, con una faccia di bronzo così tipicamente italica, da dichiarare che il fallimento era militare e che politicamente era stata una mossa perfetta, dimenticando di avere assicurato ai suddetti militari l’intervento (mancato) della Bulgaria. E infine un pensierino di Natale per gli alpini, i fanti bersaglieri e le camicie nere che morivano a centinaia per i suoi errori di valutazione. Galeazzo Ciano riporta una frase di Mussolini del 24 dicembre 1940. “Nevica. Il Duce guarda fuori dalla finestra ed è contento che nevichi. ‘Questa neve e questo freddo vanno benissimo – dice – così muoiono le mezze cartucce e si migliora questa mediocre razza italiana’”.

L’11 novembre 1940 aerosiluranti inglesi avevano affondato due corazzate nel porto di Taranto ma il peggio sarebbe arrivato un mese dopo. Il 9 dicembre a Sidi Barrani, in Egitto, due divisioni britanniche attaccavano sette divisioni italiane e le disfacevano completamente nel giro di pochi giorni facendo 38mila prigionieri. Il 3 gennaio in Libia cadeva Bardia e venivano fatti altri 40mila prigionieri. Il 22 gennaio si arrendeva Tobruk con altri 30mila prigionieri. Era la disfatta più grave mai subita dall’esercito italiano. Solo una lettura superficiale, guardando il numero dei prigionieri, può addebitare tale disastro alla poca voglia di combattere degli italiani. La verità è che bastarono pochi carri Matilda a sfondare le nostre difese; che la qualità nel deserto batteva sempre la quantità; che le nostre truppe non avevano carri armati e artiglierie anticarro realmente efficaci; che il lassismo e il pressapochismo (questo sì molto italiano) erano stati dominanti negli anni precedenti e avevano generato un dispositivo militare privo di valore dove la retorica del “sufficit animus” non bastava a colmare il divario bellico nei confronti del nemico.

E poi, proprio alla fine di gennaio 1941, la battaglia di Agordat, in Abissinia, e la prima sconfitta subita dall’esercito italiano in Etiopia per mano degli inglesi. Anche qui, tra poco sarebbe suonata la campana a morto per l’impero.

Come reagì Mussolini? Umiliandosi a chiedere aiuto ai tedeschi, cosa che avrebbe sempre voluto evitare, ammettendo la fine della “guerra parallela” e la propria subordinazione ai tedeschi. E poi, sul piano interno, inviando i gerarchi fascisti a combattere sul fronte greco in una tragicomica  rassegna di fisici poco marziali, costretti a una inutile ammuina.

Questo erano il fascismo e l’Italia nel 1940. Vedremo nelle prossime puntate come sarebbero cambiati con l’evolversi della guerra.