Quando si studia la Resistenza si avverte, ad ogni anno di più, un delta tra gli italiani di oggi e quelli di ottant’anni fa. Per evadere un poco dalla cagnara di questi giorni, dove Antonio Scurati ha ormai preso il posto degli eroi della Resistenza, dobbiamo guardare a quelli veri. Per la professoressa Paola Del Din il 25 aprile non è un giorno di festa. Questo giorno è stato e resterà sempre il ricordo della morte del fratello Renato, caduto in combattimento il 25 aprile 1944 durante un attacco alle caserme occupate dai nazifascisti che presidiavano Tolmezzo. Renato sapeva bene che si trattava di un’operazione quasi suicida. “Per la nostra santa causa – scriveva alla famiglia – ci vogliono i martiri che superino le paure e che con il loro sacrificio ci indichino la via. Sia questo il nostro primo pensiero, in cui porre un mistico amore per la nostra idea di libertà. Non rinneghiamo la bandiera lasciataci dai martiri del Risorgimento. Essi donarono la vita, offriamola anche noi! Si unirono essi intorno ad una insegna che permetteva di realizzare la prima delle loro aspirazioni: la cacciata dei tedeschi; uniamoci anche noi. Siamo italiani!”
Tutta la famiglia Del Din aveva un coraggio e uno spirito di sacrificio eccezionali, dal padre, ufficiale degli alpini, alla madre, che approvava le scelte rischiose dei figli, alla giovanissima Paola che così ricorda quei tempi: “Siamo cresciuti in una famiglia dagli ideali risorgimentali, la Patria era per noi più importante della nostra stessa vita. Quando mio fratello ed io parlavamo di ciò che facevamo, la nostra unica preoccupazione era quella di non portare a termine il compito che ci eravamo prefissati, non quello di poter essere uccisi”. Paola sarebbe diventata la prima donna paracadutista militare italiana, decorata con la medaglia d’oro al valor militare come il fratello, per poi diventare docente di lettere, sposa e madre, sempre partecipando alle celebrazioni della Resistenza sotto le bandiere della “Osoppo”.
Paola ha compiuto cento anni l’anno scorso ed è l’ultima medaglia d’oro ancora vivente di quella grande epopea che fu la Resistenza. Se qualche lettore, leggendo queste parole, resterà irritato o spazientito, reputando la Resistenza una buffonata, abbia almeno la compiacenza di arrivare fino alla fine di questo articolo dove, in poche righe, potrà conoscere eroi ormai dimenticati, tenendo conto che verranno descritti fatti avvenuti nel solo mese di aprile 1944.
Eroi come il sardo Pietro Borrotzu, che a ventitré anni si consegnò ai tedeschi per evitare la distruzione del paese di Chiusola nello spezzino, venendo fucilato il 5 aprile 1944. Combattenti come il capitano Pietro Cosa che, in Val Pesio, tenne in scacco tremila tedeschi nella battaglia di Pasqua del 1944 o come il tenente Nuto Revelli, comandante della 4a banda Giustizia e Libertà che fece altrettanto in Val Maira. Di uomini come Edgardo Sogno e Alberto Li Gobbi, catturati a Genova in una retata il 28 marzo e portati nella famigerata Casa dello Studente. Sogno, fingendo una crisi intestinale, riuscì ad andare in bagno e, lavorando con le unghie e con uno spazzolino da denti, pervenne a schiodare una sbarra di ferro dalla finestra. Al momento dell’evasione offrì ad Alberto Li Gobbi la possibilità di evadere ma questi, sapendo che il fratello Aldo era gravemente ferito e prigioniero dei fascisti, rifiutò di fuggire per non scatenare la rappresaglia su di lui. Sogno evase e riuscì a tornare a Milano. Alberto Li Gobbi morì il 1° aprile sotto le torture. Sia Alberto che Aldo Li Gobbi furono decorati con la massima onorificenza.
Ma il colpo più pesante subito dalla Resistenza venne sferrato dalla polizia fascista a Torino dove, il 31 marzo, venne arrestato al completo tutto il comitato militare del Piemonte. Fu lo stesso Mussolini a volere un processo per direttissima e a porte aperte per celebrare il successo conseguito, ma il dibattito divenne una formidabile occasione per gli accusati di mettere in mostra la loro unità nella diversità politica insieme a un patriottismo indefettibile.
Paolo Braccini, Giulio Biglieri e Franco Balbis (azionisti), Quinto Bevilacqua, Enrico Giachino e Massimo Montano (socialisti), Cornelio Brosio (liberale), Eusebio Giambone (comunista), Silvio Geuna e Valdo Fusi (democristiani) fecero quadrato attorno al loro comandante, il generale Giuseppe Perotti. Geuna, anzi, chiese la pena di morte per sé in quanto scapolo e l’ergastolo per Perotti, padre di tre figli.
Quattro i capi d’accusa: 1) attentato alla integrità dello Stato; 2) intelligenza con il nemico; 3) insurrezione armata; 4) avere commesso fatti che hanno suscitato la guerra civile. L’avvocato penalista Fusi disse ai compagni: “Le ultime tre imputazioni non ci interessano e non ci preoccupano”. “È già qualcosa” rispose Giambone “ma perché?”. “Perché la prima contempla già la pena di morte”. “Così li freghiamo” aggiunse Geuna “le ultime tre non le scontiamo”.
Poco prima che i difensori facessero il proprio ingresso in aula, Balbis ebbe a dire: “Una volta avevo tanta ammirazione per i martiri del Risorgimento. Adesso quasi gli manco di rispetto. È così facile, è così bello morire per la Patria”. Una volta terminate le dichiarazioni degli imputati e dei rispettivi avvocati, il tribunale si ritirò in camera di consiglio per stabilire la sentenza. Perotti scattò in piedi e, rivoltosi ai propri coimputati, gridò: “Signori ufficiali, attenti!”. Alzandosi in piedi, gli uomini gridarono: “Viva l’Italia!”. Uno spettacolo che spinse alle lacrime anche alcuni uscieri del tribunale.
Alla fine del rapido processo la sentenza: pena di morte per Perotti, Balbis, Braccini, Bevilacqua, Montano, Biglieri, Giambone e Giachino; ergastolo per Gustavo Leporati, Giuseppe Giraudo e Silvio Geuna, due anni a Brosio; assolti gli altri. Di fronte al proprio destino ultimo questi uomini scrissero alle loro famiglie in termini che, oggi, appaiono lontani dal nostro modo di concepire la vita. “Babbo adorato – scriveva Balbis – il tuo unico figlio si allontana da Te. Con la vita mi hai dato un nome onorato, con la costante e amorosa cura e con il tuo lavoro mi hai indicato una linea di condotta e una vita di rettitudine e di probità… Desidero che vengano annualmente celebrate due Messe: una il 4 dicembre anniversario della battaglia di Ain El Gazala; l’altra il 9 novembre, anniversario della battaglia di El Alamein, sieno dedicate per tutti i miei compagni d’arme che in terra d’Africa hanno dato la vita per la nostra indimenticabile Italia. La Divina Provvidenza non ha concesso che io offrissi all’Italia sui campi d’Africa quella vita che ho dedicata alla Patria il giorno in cui vestii per la prima volta il grigio-verde. Iddio mi permette oggi di dare l’olocausto supremo di tutto me stesso all’Italia nostra ed io ne sono lieto, orgoglioso e felice: possa il mio sangue servire per ricostruire l’unità italiana e per riportare la nostra Terra ad essere onorata e stimata nel mondo intero. Lascio nello strazio e nella tragedia dell’ora presente i miei Genitori, da cui ho imparato come si vive, si combatte e si muore; li raccomando alla Bontà di Dio e a tutti quelli che in terra mi hanno voluto bene”.
“Gianna figlia mia adorata – scriveva Paolo Braccini – è la prima e ultima lettera che ti scrivo e scrivo a te per prima, in queste ultime ore, perché so che seguito a vivere in te. Sarò fucilato all’alba per un ideale, per una fede che tu figlia mia, un giorno capirai appieno. Non piangere mai per la mia mancanza come non ho mai pianto io: il tuo Babbo non morirà mai”.
Enrico Giachino: “Cari papà e mamma … non ho la mente ferma stasera per scrivervi ma il coraggio non mi manca e non deve, non deve mancare a voi. Sarò sempre presente fra voi e vi dovete figurare solo che io sia partito per un lungo viaggio dal quale un giorno ritornerò”.
Eusebio Giambone: “È venuto in questo momento il sacerdote con il quale ho discusso a lungo: è afflitto perché non ho voluto confessarmi perché non sono un credente. Sarebbe stata da parte mia un’incorrettezza il confessarmi, ma mi pare tanto un bravo uomo che gli ho chiesto di venir a trovarti perché ti confermi a voce come veramente mi ha visto tranquillo”.
Giuseppe Perotti: “Non credevo così facile adattarsi all’idea del trapasso. Ma se penso non a me che me ne vado, ma a voi che restate, allora un supremo sconforto mi assale e un dolore immenso per il male che vi faccio… Non voglio fare il bilancio della mia vita: si chiude in modo così tragico che non so come classificarla. Debbo giudicare che sono sempre stato un fallito e che l’ultimo atto ha chiuso degnamente il ciclo. Ma d’altra parte ho sempre cercato, e ne ho piena coscienza, di fare del mio meglio senza fare male a nessuno”.
In quella notte tutti i condannati, a eccezione di Eusebio Giambone, ricevettero i sacramenti dal cappellano. Poco dopo le 6, nella fredda alba di mercoledì 5 aprile 1944, gli otto detenuti furono fatti uscire dalle proprie celle per salire sul furgone che li avrebbe portati al poligono di tiro del Martinetto. Balbis, prima di salire sul furgone, disse: “Il prossimo Comitato giovedì mattina alle otto e trenta al terzo angelo a destra di San Pietro. Puntualità, mi raccomando”. Un sacerdote missionario della Consolata, padre Carlo Masera, era salito con loro sul furgone cellulare e ricorda che erano “tutti silenziosi, sereni, non avevano nessun moto di protesta, di ribellione. Sembravano accettare la loro sorte con molto coraggio. L’unico a rompere il silenzio sul cellulare è stato il capitano Balbis, il quale, giunti nel cortile davanti al Martinetto, disse ai compagni: ‘Amici, fra pochi istanti noi vedremo Dio faccia a faccia’”.
Il furgone della Guardia nazionale repubblicana, preceduto e seguito da due autocarri della polizia, giunse al poligono di tiro del Martinetto, un luogo triste e diroccato. Gettato lo sguardo sulle bare che dovevano ricevere le salme dei condannati, rivoltosi ai compagni, Balbis esclamò: “Quanta tirchieria dimostra la Repubblica! Queste casse sono tutte corte per me!”. Si avvicinò alla bara più lunga e, fattosi prestare una matita, vi incise il proprio nome, “affinché mio padre, nel ricercarmi, non debba prima disturbare i miei compagni”. Gli otto condannati si abbracciarono per darsi l’ultimo addio e furono fatti sedere su delle rozze sedie all’interno del poligono.
I condannati erano pronti, avevano rifiutato le iniezioni stordenti e le pastiglie che li avrebbero intontiti. Il plotone d’esecuzione si schierò e il cancelliere, leggendo la sentenza, disse: “Balbis Bruno”. Il capitano di artiglieria alzò le braccia: “Un momento! Voi state fucilando un altro. Io sono Franco, non Bruno”, precisò con il sorriso sulle labbra. Un istante prima che avvenisse l’esecuzione, il generale Perotti gridò “Viva l’Italia!” e i suoi compagni risposero “Viva l’Italia!”. Alle 7.10 i fucili spararono.
Questa è stata la Resistenza italiana, al netto di tutte le nefandezze commesse da una minoranza sanguinaria. Il lettore si interroghi se ha mai sentito nominare anche uno solo di questi nomi e si chieda se l’incapacità italiana ed europea di aiutare un Paese aggredito di fronte a un aggressore brutale, arrogante e senza legge (sì, anche rischiando in proprio) non sia l’effetto della devastazione della memoria avvenuta in questi anni. I partigiani italiani avevano in mente il Risorgimento di ottant’anni prima. Noi, ottant’anni dopo la Resistenza, abbiamo perso le ragioni del vivere e anche quelle per cui morire.
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