La mattina del 20 maggio 1999 l’Italia si risveglia con l’incubo di un terrorismo che sembrava ormai affidato al passato, caratteristico di un periodo storico, gli anni di piombo, che alla fine degli anni 90 si riteneva fosse ormai superato. Un commando, che si rivelerà essere poi costituito da membri delle Nuove Brigate Rosse, uccide a Roma il prof. Massimo D’Antona, consulente giuridico del ministro del Lavoro del Governo D’Alema, Antonio Bassolino.
Trascorsi 25 anni da questo omicidio, senza dubbio è il momento di studiare e indagare su questi fatti e su questo periodo storico (oggi davvero superato) per cercare di capire e provare a rispondere a diverse domande impegnative. Ad esempio, perché in Italia la lotta armata e il terrorismo politico sono durati così a lungo, arrivando perfino a scavallare il nuovo millennio (un altro giuslavorista, Marco Biagi, venne ucciso nel 2002)? Molto ancora storici e studiosi dovranno approfondire per cercare di rispondere a questa e ad altre domande simili.
In un libro che mescola sapientemente l’atteggiamento dello studioso e i ricordi di chi ha partecipato direttamente a quegli eventi, Maurice Bignami, ex membro del direttivo di Prima Linea, afferma che anche il ’68 in Italia è durato di più rispetto ad altri Paesi, e che la lotta armata, o almeno il terrorismo rosso degli anni 70-80 è in qualche modo collegato alla famosa contestazione studentesca (Addio Rivoluzione, Rubbettino, 2020).
Soffermandoci principalmente sulle Brigate Rosse, diversi testi oggi disponibili ricostruiscono la loro storia (sull’ultima fase è interessante Brigate Rosse. La minaccia del nuovo terrorismo, di Gianni Cipriani, Sperling & Kupfer, 2004). Occorre in primo luogo rilevare che questa organizzazione ha conosciuto diverse fasi del suo sviluppo. La prima è quella degli inizi, con Franceschini, Curcio e Cagol come principali protagonisti, in cui, ponendosi come obiettivo politico quello della “propaganda armata”, le BR cercavano contatti e consensi nel mondo operaio e nel popolo in generale.
Terminata questa prima fase con gli arresti dei capi, ne inizia una nuova, in cui si afferma soprattutto la linea “militarista” di Mario Moretti, che arriverà fino a compiere l’atto più clamoroso, l’“attacco al cuore dello Stato”, cioè il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Comunemente si pensa che, più o meno, l’attività delle BR si esaurisca dopo questo episodio. Non andò esattamente così, se è vero che infatti ben vent’anni dopo ritroviamo le BR che colpiscono D’Antona e Biagi.
Dopo l’arresto di Moretti del 1981, si verifica una spaccatura all’interno dell’organizzazione, che vede sopravvivere, dopo un’altra serie di arresti negli anni 80, soprattutto le BR Partito Comunista Combattente, cioè quel che rimaneva dell’ala militarista. In seno all’organizzazione, ormai molto indebolita, si comincia a teorizzare la “ritirata strategica”, che si configura come una scelta tattica e non significa affatto la rinuncia alla lotta armata. Infatti, i sopravvissuti delle BR-PCC continueranno a sparare anche negli anni 80, fino a quello che viene considerato come l’ultimo omicidio politico prima dell’avvento delle Nuove BR, quello del senatore della DC Roberto Ruffilli, nel 1988.
Nelle motivazioni e nelle rivendicazioni dell’omicidio Ruffilli si possono scorgere i segnali che porteranno a colpire, ben undici anni dopo, Massimo D’Antona, e successivamente Marco Biagi. Ruffilli venne ucciso perché considerato l’uomo chiave nel processo di riforme istituzionali che la Democrazia Cristiana stava portando avanti nel dialogo con il PCI. Tali riforme, dal punto di vista brigatista, erano viste come un pericolo perché potenziavano il governo centrale ed escludevano la mediazione sociale.
Vale la pena sottolineare che l’ala militarista delle BR, che sopravvisse e continuò a sparare durante gli anni 80, era composta da coloro che, anche dopo l’arresto, si erano opposti a qualsiasi ipotesi di “soluzione politica” per terminare la stagione della lotta armata, che invece diede risultati ad esempio con Prima Linea. L’idea di questi brigatisti era che la lotta di classe fosse una necessità storica, e che dunque dovesse continuare, anche attraversando momenti di arretramento e di ricostruzione. Non bisogna peraltro immaginare l’attacco al cuore dello Stato semplicemente come un tentativo di abbatterlo “frontalmente”: i brigatisti conoscevano benissimo la disparità di forze tra loro e lo Stato. Per questo, occorreva colpire obiettivi strategici per cercare di disarticolare i processi di riforma, soprattutto quelli che riguardavo l’ambito del lavoro e prevedevano, oltre al rafforzamento del governo centrale, anche la concertazione tra questo e le parti sociali (Confindustria e sindacati). Tutto ciò era visto dai brigatisti come l’attacco controrivoluzionario dello Stato, che tendeva a depotenziare i conflitti sociali e a marginalizzare il proletariato. A questa premesse “dottrinali” rispondeva tanto l’omicidio di Ruffilli, quanto quelli di D’Antona e Biagi.
Dalla fine degli anni 80 un’altra importante ondata di arresti decimò l’organizzazione. Il 1992 in particolare è l’anno in cui comincia la crisi della Prima Repubblica, in cui si intensifica l’attacco allo Stato da parte di un’altra organizzazione, questa volta non politica ma criminale, Cosa nostra. Per i brigatisti, questo è il periodo dello “stadio aggregativo”, con la ricostruzione di piccole avanguardie combattenti. In questi anni nascono e si sviluppano i Nuclei Comunisti Combattenti (NCC), composti da quanti sono rimasti a piede libero, da giovani leve e fiancheggiatori vari (tra costoro, significativamente, possiamo annoverare Nadia Desdemona Lioce e Roberto Morandi), che hanno come scopo quello di (ri)costruire il Partito Comunista Combattente, per continuare la guerra contro lo Stato. Su queste basi si crea un’asse (sicuramente da approfondire meglio) tra i NCC e i cosiddetti brigatisti “irriducibili” che dal carcere continuano a rifiutare soluzioni politiche di compromesso e a propugnare il prosieguo della lotta.
Nella prima metà degli anni 90, peraltro, la necessità della lotta dal punto di vista di queste avanguardie trova nuova linfa nella crisi economica, che si ripercuote anche sullo “stato sociale”, e nei tentativi di concertazione tra governo e parti sociali, aspramente avversata dai NCC con alcune azioni maldestre e le conseguenti rivendicazioni che tiravano in ballo l’accordo del 3 luglio 1993. Queste cellule, dunque, si pongono come obiettivo di cavalcare il malcontento sociale per giustificare nuove azioni sovversive.
In questo quadro va inserito l’omicidio di D’Antona, semi-sconosciuto all’opinione pubblica ma figura chiave per la costruzione del “Patto per lo sviluppo e l’occupazione”, che prevedeva una concertazione tra governo e parti sociali. Nel volantino di rivendicazione, fatto trovare successivamente all’assassinio, non vi sono solo le ragioni del gesto, in cui si prende di mira esplicitamente anche il Governo D’Alema e i sindacati, ma anche l’annuncio del ritorno delle Brigate rosse. La fase di “tirocinio” è terminata, quelle piccole avanguardie cresciute durante gli anni 90, tenendo vivo un filo (fors’anche esile) di continuità con il passato, sono ora pronte per riprendere il vecchio nome, il vecchio simbolo e le vecchie argomentazioni.
Sono gli ultimi, drammatici colpi di coda di una stagione che terminerà di lì a poco. Una stagione caratterizzata da una particolare pervicacia dell’ideologia, come afferma Alberto Franceschini, secondo il quale le BR si sono nutrite “di un mito, la rivoluzione comunista, che in Italia è così duro a morire. Sopravvive persino alla caduta del Muro di Berlino e alle tragedie dell’Est. Quel mito resiste perché è profondamente radicato nella cultura politica e nell’immaginario sociale di una parte del Paese” (Giovanni Fasanella e Alberto Franceschini, Che cosa sono le BR, Rizzoli, 2004).
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