Mentre l’Italia veniva continuamente bombardata dagli Alleati le trattative armistiziali procedevano febbrili. Il 1° settembre il re accettava le condizioni e il 2 settembre Castellano tornava a Cassibile per comunicare tale decisione e discutere ancora della situazione militare ma, a questo giro, il Comando alleato non era disposto a prolungare le trattative. Per il 9 settembre erano previste grandi operazioni anfibie a Salerno e Taranto e la firma dell’armistizio doveva essere, necessariamente, immediata.
Ci si può immaginare la scena: il generale Castellano, accompagnato dall’interprete Montanari e dal maggiore Luigi Marchesi, aiutante del generale Ambrosio che, di fronte ai generali Alexander e Eisenhower oltre ai ministri MacMillan e Murphy si sentì chieder le credenziali per la firma dell’armistizio. Castellano cadde dalle nuvole e disse che non era previsto niente di tutto ciò. La delegazione italiana fu chiusa in una tenda militare e Alexander espresse tutta la propria rabbia: “Questa è una maniera molto buffa di trattare da parte del Vostro governo!” aggiungendo che, se l’armistizio non fosse stato firmato immediatamente, un’imponente forza di bombardieri avrebbe colpito Roma con distruzioni assai maggiori di quelle già inferte nei giorni precedenti.
Nel pomeriggio del 2 settembre Castellano inviò un febbrile telegramma a Roma per ottenere l’autorizzazione alla firma ma non vi fu nessuna risposta. Alle quattro di notte del 3 settembre Castellano sollecitò nuovamente l’autorizzazione, affermando che gli Alleati avrebbero compiuto ben presto nuovi sbarchi in Italia. La mattinata del 3 trascorse senza nessuna novità, ma la risposta giunse solo alle due del pomeriggio: “Risposta affermativa data con nostro numero cinque (telegramma) contiene implicitamente accettazione condizioni armistizio”. Ma tale affermazione era tutt’altro che esplicita e, giustamente, gli Alleati chiesero nuova conferma che arrivò alle cinque di sera. Così alle 17,15 del 3 settembre Castellano poté firmare l’armistizio, assumendosi una responsabilità che i suoi superiori a Roma cercavano affannosamente di scaricare l’uno sull’altro.
Da quel momento iniziò la settimana più caotica della storia italiana. Alle 23 del 3 settembre Bedell Smith informò Castellano dell’esistenza dell’armistizio “lungo”, consegnato a Zanussi ed effettivamente vincolante per l’Italia su condizioni molto più dure. Castellano cercò di riprendere l’iniziativa e organizzò con i generali alleati un’operazione (nome in codice Giant Two) che, se avesse avuto successo, avrebbe potuto cambiare la storia italiana. Si trattava di lanciare sugli aeroporti di Furbara e Cerveteri l’82esima divisione di paracadutisti che, supportata dalle truppe italiane intorno a Roma, avrebbe dovuto prendere possesso della Capitale e costringere i tedeschi a ritirarsi verso nord. Il generale Maxwell Taylor e il colonnello Gardiner si sarebbero recati a Roma per concordare le modalità dell’aviosbarco.
Dopo la riunione Castellano cercò di conoscere la data dello sbarco alleato da Bedell Smith senza riuscirci, ma presunse che essa fosse per il 12 settembre e di ciò informò Ambrosio. Questi, dopo aver richiesto all’ammiraglio de Courten di preparare due motosiluranti per il trasporto a Roma di Taylor e Gardiner, si recò Torino in treno la sera del 6 settembre per recuperare dei documenti personali e fece ritorno a Roma solo l’8 settembre. Così i due ufficiali americani, giunti a Roma la seta del 7 settembre, non poterono incontrare né Ambrosio né altri responsabili eccetto il generale Carboni che dichiarò l’impreparazione italiana ad affrontare i tedeschi. Sotto le pressioni di Taylor, Carboni si recò a casa di Badoglio che, svegliato in piena notte, confermò quanto dichiarato da Carboni e tornò a dormire. A quel punto Taylor trasmise l’ordine di annullare l’operazione suscitando pianti di gioia tra i paracadutisti americani, convinti di andare verso morte certa.
La mattina dell’8 settembre Ambrosio rientrò a Roma ma non vide Taylor e Gardiner che vennero accompagnati ad Algeri dal generale Francesco Rossi, il quale tentò di rinviare l’annuncio dell’armistizio. Ambrosio e Badoglio, dal canto loro, trascorsero la giornata dell’8 nella convinzione che la richiesta di rinvio fosse stata accettata anche perché non si era avuta notizia della trasmissione convenzionale che doveva precedere la dichiarazione dell’armistizio. In effetti, la trasmissione ci fu ma il Sim (Servizio informazione militare) non la percepì (altro mistero italiano) e la radio clandestina era spenta.
A far togliere la testa dalla sabbia a questa congrega di struzzi provvide il Comando alleato che, con un telegramma durissimo, impose a Badoglio l’annuncio entro le 17,30. Venne convocato il cosiddetto Consiglio della Corona cui parteciparono il re e le massime cariche militari. Fra tanti generali vi era anche il maggiore Luigi Marchesi, aiutante di Ambrosio. Nel corso della riunione Carboni e altri proposero con forza di smentire l’operato di Castellano e, per un attimo, parve che tutta l’elaborata trattativa dovesse saltare all’ultimo momento. Le conseguenze sarebbero state terribili perché, sentendosi traditi, sia i tedeschi sia gli anglo-americani avrebbero trattato l’Italia senza alcuna pietà.
Fu a questo punto che intervenne il maggiore Luigi Marchesi. Nelle sue memorie affermerà che, proprio in quel momento, aveva ricevuto un telegramma con cui Eisenhower minacciava ritorsioni pesantissime in caso di mancata comunicazione dell’armistizio. Ricorda lo stesso Marchesi: “Nello stato di contenuta esasperazione in cui mi trovavo mi sentii improvvisamente invadere da una grande calma. Mi apparve evidente, all’infuori di qualsiasi altra considerazione, la necessità di intervenire. Rapidamente su un foglio di carta che avevo davanti, segnai uno schema degli argomenti che avrei trattato per contrastare le tesi del generale Carboni. Carboni finì di parlare. Subentrò per alcuni minuti un profondo silenzio poi mi ritrovai in piedi che parlavo”.
Marchesi espose gli accordi sottoscritti con l’armistizio e rilevò l’importanza della collaborazione militare che l’Italia avrebbe potuto fornire agli Alleati e che avrebbe potuto mitigare le condizioni di resa. “A mano a mano che parlavo – ricorda ancora Marchesi – dimenticavo sempre più il programma che mi ero ripromesso e la mia esposizione, da calma e serena, aveva preso a essere sempre più tesa e incalzante… Nella mia foga di parlare non vedevo più nessuno e mi accorsi che tenevo i pugni chiusi sul tavolo. Con notevole sforzo ripresi il controllo di me stesso e ridiventai completamente calmo, potendo così ritornare alla mia esposizione programmata”.
Il richiamo alle colossali responsabilità e la minaccia di un terrificante bombardamento alleato sulla capitale furono sufficienti a eliminare l’ultimo ostacolo. Il re approvò l’armistizio e Badoglio si accinse a comunicarlo alla nazione. Carboni, che avrebbe dovuto predisporre la stazione radio, si disse all’oscuro di tutto e così l’anziano maresciallo dovette essere portato alla sede dell’Eiar. Alle 19,45, con un’ora di ritardo rispetto a quanto pattuito con gli Alleati, Badoglio lesse il seguente annuncio: “Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”.
La nazione e le forze armate rimasero completamente sorprese dalla notizia. Gli italiani, per quanto scoraggiati, affamati e disperati erano disposti ad obbedire all’autorità e a continuare la guerra secondo una tradizione secolare di ossequio alla Corona e ai suoi rappresentanti.
Questi, invece, fuggirono tutti nella notte tra l’8 e il 9 settembre a Pescara e a Ortona, imbarcandosi sulla corvetta Baionetta, in una scena tragicamente ridicola, con generali che si spingevano e si accalcavano per salire sulla nave. Che il Re dovesse mettersi in salvo è indubbio e così il suo governo. Il punto è un altro e cioè che, per motivi di segretezza (per salvare la pelle) non erano stati lasciati ordini, senza costituire un comando clandestino che potesse dirigere la resistenza a Roma.
Quella sera morì l’Italia nata nel 1861, risorgimentale e sabauda, tradita dal proprio governo e dallo stesso re. Poteva essere la fine di una nazione ma, da qualche parte, qualcuno reagì e furono, innanzitutto, proprio quei militari che avevano disciplinatamente combattuto tutte le guerre del fascismo. E non sarebbe stato raro, infatti, che tanti ufficiali decorati con la croce di ferro germanica sarebbero diventati eroi della Resistenza, rischiando e, spesso, pagando con la vita l’amore per l’Italia.
La mattina del 9 settembre la sede dello stato maggiore dell’esercito veniva occupato dalle truppe naziste e quanti militari vi si trovavano venivano presi prigionieri. Eppure, un distinto signore, alto, biondo, un po’ stempiato, in abiti civili e con una borsa di documenti sotto il braccio, uscì da una stanza e si incamminò per i corridoi con la massima naturalezza, mentre in tutto il palazzo succedeva il finimondo. L’anonimo funzionario conosceva bene l’edificio e scese le scale verso i sotterranei, uscendo da una porta secondaria in mezzo a civili e militari per trovarsi su via Nazionale, presidiata dai carri armati tedeschi. Senza fretta, ma con passo deciso e costante, passò accanto ai nazisti e svoltò in una strada laterale, poi in un’altra ancora. Si trattava del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo e sulla sedia del suo ufficio era rimasta solo la sua uniforme, accuratamente piegata. Era iniziata la clandestinità di quello che il colonnello delle SS Herbert Kappler definì il suo nemico più pericoloso.
Come lui, altri uomini scelsero subito da che parte stare. La sera dell’8 settembre il tenente Edgardo Sogno, conte Rata del Vallino, decorato per la partecipazione alla guerra di Spagna dalla parte dei franchisti, era a Torino ma fuggì al sud dove avrebbe cominciato una nuova guerra contro i tedeschi, diventando uno dei protagonisti della Resistenza.
Il 9 settembre, nella caserma di Chiavari un sottotenente di 22 anni decise di non cedere le armi ai tedeschi e di nasconderle. L’ufficiale si chiamava Aldo Gastaldi e sarebbe stato conosciuto col nome di battaglia di “Bisagno”. Mentre compivano questa operazione Gastaldi aveva ancora l’uniforme e i gradi. A chi gli diceva di toglierseli per evitare la fucilazione, in caso di cattura, il giovane ufficiale rispose che intendeva assumersi ogni responsabilità per salvare la vita dei suoi uomini. Le armi vennero nascoste nella casa di un calzolaio che procurò scarpe a tutta la compagnia. Pochi giorni dopo Gastaldi formava il primo gruppo di azione, scegliendo come base la località di Gnorecco, alle falde del monte Ramaceto, nelle vicinanze di Cichero. Su quelle aspre montagne e in migliaia di altri luoghi, come tanti sopravvissuti a un diluvio universale, migliaia di ragazzi e di uomini maturi iniziavano la Resistenza e la storia di un’Italia risorta dalle proprie rovine.
(1 – continua)
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