Già Ernst Cassirer aveva notato la tentazione tipicamente umana di attribuire a certe date e a certi eventi una funzione di spartiacque epocale, che essi probabilmente né rivestivano né avrebbero rivestito.

Pochi decenni dopo, Mircea Eliade ed Elias Canetti avevano ipotizzato e, in larga misura, provato che non si trattasse di una “presbiopia” storiografica tipicamente occidentale: gli umani tutti interpretano la vita nel rapporto di significazione che instaurano rispetto agli accadimenti cui assistono. Alcuni episodi acquisiscono sin dal loro avvenimento la rinomanza simbolica del cambiamento ineluttabile: così i contemporanei vissero l’assalto visigoto a Roma nel 410 (come riporta sant’Agostino), così noi recepimmo, forse non sempre a ragione, la caduta del Muro di Berlino nel 1989 o l’attentato dell’11 Settembre 2001 alle Torri Gemelle.



Restiamo così colpiti dalla notizia da essere poi deconcentrati nella valutazione sugli effetti di lunga durata, quelli che inevitabilmente amalgamano il vecchio e il nuovo, la trasformazione e la conservazione.

Ci sono, del resto, marcatori cronologici di straordinaria significatività di cui i contemporanei colsero ben poco: la deposizione di Romolo Augustolo nel 476 o la scoperta dell’America nel 1492 – inizio e fine convenzionale dell’Età di Mezzo – non turbarono nell’immediato la coscienza collettiva. In un caso l’impero versava già in condizioni critiche e non era un fatto imprevedibile che potesse seguire una lunga fase di confuso dominio militare, anche barbarico; nell’altro, Colombo stesso era convinto d’esser arrivato in India, figurarsi se chi aveva avuto notizia della sua spedizione potesse sin da subito pensare al rinvenimento di un continente nuovo, mai visto e mai sentito.



Esistono poi degli eventi che tanto i posteri quanto i contemporanei rileggono in termini persino escatologici, varchi tra mondi finiti e mondi ancora da plasmare, creando un immaginario tuttavia ben poco probante sul piano strettamente storiografico.

Una rilettura simile riguardò il sacco di Roma ad opera dei lanzichenecchi, a partire dal 6 maggio del 1527. La prima avvertenza è che gli sbandati mercenari alemanni fecero con quell’assedio e quelle ruberie danno a loro stessi quanto alla Città Eterna: la loro torrenziale carica di migliaia di miliziani mise a ferro e fuoco, con vari vandalismi e promiscuità, quartieri colpiti da carenze igieniche abnormi e da focolai pestilenziali. I lanzichenecchi stessi si ammalarono in quantità e concorsero a rendere il morbo più diffuso nel perimetro capitolino medesimo: la loro tumultuosa discesa fu pari fonte di razzie e sventure, all’interno e al di fuori del loro contingente.



Poco dice peraltro il sacco romano sulle potenzialità effettive di quelle truppe: avevano scartato Firenze, meglio difesa, avevano attaccato l’Urbe, ma la decisione stava già nel quadro delle potenze coinvolte nella guerra. Gli Spagnoli, il Sacro Romano Impero e, in posizione subordinata, il Ducato ferrarese riuscirono brevemente a imporsi contro lo Stato pontificio e i suoi alleati francesi.

Fu una vittoria di Pirro, soprattutto per i tedeschi e i notabili estensi: il Sacro Romano Impero si dissolse formalmente solo all’alba del XIX secolo, ma la sua presa sul continente ebbe di lì a breve momenti travagliati e instabili, progressivamente marginalizzata poi dallo sviluppo coloniale; Ferrara già alla fine del XVI secolo venne politicamente riassorbita nell’orbita pontificia.

La bellissima Roma rinascimentale non è peraltro la città più in vista del periodo: i secoli precedenti diedero lustro alle città dell’Italia centrale e centrosettentrionale con ancora maggior sfarzo, cimento culturale, innovazione e riconoscimento artistico.

Roma, al tempo della discesa lanzichenecca, è già una terra sofferente, afflitta da carestie, dissidi nobiliari, tensioni all’interno della stessa Chiesa, che scontava vieppiù decenni di corruttele nella curia e il progressivo affermarsi dello scisma luterano nei territori nord-europei.

Appare perciò strano che il logico e linguista Bertrand Russell assegni, insieme ad altri, la palma di fine del Rinascimento alle sciagurate agitazioni del maggio 1527. C’è bisogno di date, di riferimenti, di simboli e scansioni: il Rinascimento che dà più sistematico impulso istituzionale alla partecipazione nella politica locale è finito da un pezzo; quello delle arti figurative, se pure possa essere un po’ spostato in avanti il suo declino, ha vissuto già i suoi momenti più importanti, una stagione sta per finire. Le truppe tedesche, i bubboni e le violenze che decimano la popolazione romana ne sono soltanto il certificato, non l’origine o la causa.

Non finisce del tutto nemmeno il mito di Roma, che conoscerà nel Barocco una nuova grande stagione di attivismo diplomatico, curiale e nobiliare, oltre che una splendida e magnificente epopea architettonica e urbanistica. Contrassegnata, questo sì, dal grave incrostarsi di vastissime sperequazioni sociali, tra faccendieri corrotti quanto bigotti e una plebe sempre più simile a quel fatalismo ora sfaccendato, ora straziante così ben vergato dal Belli nei secoli successivi.

Nel 1527 la vera disfatta non riguarda nemmeno la Chiesa cattolica, che dalla Controriforma fino alle rivoluzioni borghesi di fine Settecento meglio modulerà la propria dottrina, il proprio diritto e le proprie istituzioni. La vera sconfitta dopo la orgiastica mattanza dei mercenari è piuttosto l’unitarietà strategica, talora cercata e mai più trovata, dei regni italiani, sempre più esposti alla dominazione straniera e alla rissosità interna.

Negli ex voto ribaltati, nelle chiese depredate, nelle contrade assalite, in quel maggio del 1527, scopriamo quasi crocianamente un dato immutevole dell’esistere: pur diversi, quanto in fondo si somigliano l’inizio e la fine di ogni vicenda umana!

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