“A questo punto i tedeschi li avrebbero lasciati in mare. Che fasèmo?”. Così si rivolge il marinaio veneto Vittorio Marcon al capitano di corvetta Salvatore Bruno Todaro, il Comandante del film con Pierfrancesco Favino che ha aperto l’ultimo Festival del cinema di Venezia e ora è nelle sale. È il 16 ottobre 1940. Todaro e l’equipaggio del sommergibile Cappellini della Regia Marina Italiana devono prendere una ardua decisione: far salire a bordo i 26 superstiti del mercantile belga Kabalo che trasportava materiale bellico per gli inglesi, da loro colpito nelle acque dell’Atlantico, o abbandonarli alla loro sorte? “Li tiriamo su”, è la risposta di Totaro, dopo qualche attimo di esitazione, contravvenendo così alle disposizioni superiori. “Siamo in guerra, ma siamo ancora uomini”. Dopo tre giorni di navigazione tra mille ostacoli, il sottomarino italiano farà sbarcare i “nemici” in un porto sicuro delle Azzorre, prima di riprendere la navigazione.



Una stupenda storia vera di guerra e di fraterna umanità – che in qualche modo ricorda un altro bel film, Joyeux Noël del francese Christian Carion – raccontata al cinema dal regista Edoardo De Angelis e dallo scrittore Sandro Veronesi, coautore della sceneggiatura. Su questa vicenda drammatica ed edificante del secondo conflitto mondiale, finora poco o per nulla conosciuta, Il Sussidiario è intervenuto il 23 gennaio, in occasione della pubblicazione del romanzo tratto dal film e scritto dagli stessi De Angelis e Veronesi. C’è però anche un’altra storia del tutto simile ma con esito diametralmente opposto, rimasta fino ad oggi sepolta negli archivi, che vale la pena conoscere e su cui riflettere.



“I primi due siluri erano penetrati nella nave ma non erano esplosi. Poi ci furono due boati, altri due siluri erano andati a segno, sfondando lo scafo. La nave si immerse con la prua in alto. Noi italiani continuavamo a essere rinchiusi nelle stive, i tedeschi si rifiutavano di aprire. Vedendo che la loro forza non era sufficiente a fermare l’enorme massa umana, lanciarono bombe a mano nelle stive in mezzo a noi prigionieri. La gente cadeva, uno addosso all’altro. Il massacro proseguì finché tutto l’equipaggio tedesco abbandonò la nave”. Queste parole fanno parte della dolorosa testimonianza, risalente a qualche anno fa, dell’ultranovantenne Leontino Barlocco, uno dei sopravvissuti all’affondamento nelle acque dell’Egeo del piroscafo Petrella, colpito dai siluri lanciati dal sommergibile inglese Sportsman. È il mattino dell’8 febbraio 1944.



Il drammatico racconto di Barlocco è contenuto nel libro Accadde a Creta. 1941-1945 (Infinito, 2023) la cui autrice, Patrizia Làrese, è figlia di un altro sopravvissuto al naufragio del Petrella, il tenente Severino Làrese (1918-2000). Inquadrato nella divisione Siena, l’ufficiale faceva parte del contingente italiano che occupava insieme ai tedeschi l’isola greca di Creta e che dopo l’8 settembre rifiutò di continuare la guerra a fianco delle truppe tedesche. Làrese fu tra i pochi che riuscirono miracolosamente a salvarsi dal naufragio grazie al generoso aiuto dei pescatori greci che, vedendo la nave in fiamme, non esitarono a sfidare le onde e le mitragliatrici naziste per soccorrere i soldati italiani. Negli anni seguenti parlò ben poco in famiglia della sua angosciosa esperienza. La figlia, dopo la sua morte, ha voluto colmare un vuoto andando alla ricerca dei fatti tragici accaduti a Creta dopo l’armistizio, imbattendosi così nell’eccidio degli Internati militari italiani (Imi), i prigionieri di Hitler.

Torniamo alla mattina di quel tragico 8 febbraio 1944. Severino Làrese era stato sistemato in coperta insieme ad altri ufficiali. Con questa spiegazione dei carcerieri: “Ora i caccia inglesi mitragliano e bombardano: penseranno loro a eliminarvi togliendo a noi il disturbo”. Negli scarni ricordi della figlia emerge che il padre raccontava che si trovò in mano un salvagente e si tuffò. “Le motovedette tedesche con le mitragliatrici spianate avanzavano tra i naufraghi in cerca di loro soldati ancora vivi, sparando su di noi italiani. Mi allontanai dal relitto e da quell’inferno e mi ritrovai in mare aperto, da solo”. Poi accadde qualcosa di inatteso. “Mi misi ad aspettare la morte. Pregavo la Madonna. Ero sul punto di perdere del tutto i sensi quando, all’improvviso, sentii il sordo borbottio del motore di un peschereccio. Mi risvegliai qualche giorno dopo in un letto”.

In totale, le vittime del naufragio del Petrella furono 2.670, una delle più grandi tragedie mai accadute nel Mediterraneo. Si salvarono 527 prigionieri italiani su 3.173, 24 dei quali morirono successivamente per le ferite riportate. Furono tratti in salvo anche 30 membri dell’equipaggio su 34, oltre a 35 artiglieri tedeschi addetti all’armamento contraereo su 36 e 79 militari di scorta tedeschi su 95. Il tenente Làrese, caduto di nuovo in mani naziste, dopo cure sommarie venne trasferito in aereo ad Atene e da qui, su una tradotta con migliaia di commilitoni diretta in Germania, raggiungerà l’Italia dopo un viaggio dell’orrore durato settimane, in condizioni disumane. Varcato il confine, riuscì a saltare dal treno e a far perdere le sue tracce per evitare il lager.

Il relitto del Petrella giace oggi sul fondale marino al largo della baia di Sula. Ma non è l’unica nave carica di prigionieri italiani che si trova in fondo all’Egeo dopo essere stata affondata dalla marina britannica. Tra il 23 settembre 1943, con l’affondamento della Donizetti, e il 4 marzo 1944, quando venne affondata la Sifnos, morirono in mare, in base a varie fonti, tra 13mila e 20mila nostri soldati. Gli inglesi avevano l’ordine di non fermarsi a soccorrere i naufraghi, ma lo facevano per sfuggire alla reazione aerea del nemico. Per i tedeschi invece si ripeteva sempre lo stesso copione visto per l’affondamento del Petrella: migliaia di giovani militari italiani lasciati affogare senza soccorso o colpiti dalle armi naziste. Un’ecatombe.

Ai suoi marinai e agli increduli naufraghi belgi il comandante Todaro aveva detto: “Noi affondiamo il ferro nemico, senza pietà, senza paura, ma l’uomo… l’uomo lo salviamo”. Questa estrema attenzione all’umano – anche in guerra – è mancata agli spietati occupanti tedeschi di Creta, come manca nella totalità dei devastanti conflitti contemporanei che abbiamo con dolore sotto gli occhi.

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