Quella primavera gli italiani si resero conto che le sorti del conflitto, che durava da tre anni, erano ormai segnate. Le città del Meridione e, in particolare, quelle siciliane venivano bombardate ogni giorno dagli angloamericani. Trapani fu bombardata sei volte in un mese, Catania due volte, Palermo quattro. Proprio a Palermo le incursioni del 9 e del 13 maggio massacrarono complessivamente 400 palermitani. Particolarmente colpite furono Messina (cinque bombardamenti con 260 morti) e Reggio Calabria (cinque incursioni con 300 morti). Ancora una volta la città che ebbe più vittime fu la povera Napoli quando il 30 maggio, le fortezze volanti devastarono Santa Lucia, via Granturco, via Arenaccia, il carcere di Poggioreale e installazioni industriali con il terrificante bilancio di 358 morti in un giorno solo. Altre città furono bombardate, come Foggia (150 morti), Civitavecchia (295 morti), Livorno (249 morti).
Le ricchezze della nazione si stavano dissolvendo, come quelle della nostra marina mercantile, tra le più grandi e moderne del mondo. Fin dal primo giorno di guerra il “genio” di Mussolini aveva portato a una dichiarazione di guerra fatta in fretta e furia che sacrificò, in un giorno solo, il 30 per cento della nostra flotta mercantile, sorpresa dalla guerra in porti esteri. Dopo le perdite subite nella rotta per Malta le nostre navi dovettero affrontare la “rotta della morte” tra Sicilia e Tunisia con perdite devastanti. Su 388 mercantili impiegati 154 furono affondati e 138 danneggiati, mentre i nostri marinai si sacrificavano per adempiere missioni impossibili.
Dopo tre anni di guerra sul mare vi erano ancora comandanti come Saverio Marotta, marchigiano, che al comando della torpediniera “Perseo” cercò di proteggere il mercantile che gli era stato affidato. La “Perseo” fu crivellata di colpi da tre cacciatorpediniere britannici e Marotta ebbe un braccio asportato da una scheggia. Quasi dissanguato ordinò di abbandonare la nave e svenne. “Ripresa conoscenza su di un battello – come recita la motivazione della medaglia d’oro alla memoria –, su cui era stato trasportato dai suoi uomini, si faceva riportare a bordo, fra i caduti, per dividere con essi la sorte dell’unità che, nuovamente colpita, esplodeva affondando”.
Anche la nostra operatività in Atlantico stava scomparendo. Gli angloamericani avevano vinto la battaglia dei trasporti e a farne le spese furono i sommergibilisti tedeschi e quelli italiani che operavano dalla base di Bordeaux. Il 21 maggio, al termine di un duello con due cacciatorpediniere inglesi, il sommergibile “Leonardo da Vinci” scompariva nell’Atlantico con tutto il suo equipaggio e col comandante Gianfranco Gazzana Priaroggia, l’asso dei nostri sommergibilisti, che aveva al suo attivo ben 90mila tonnellate di naviglio affondato.
Nonostante tutto gli italiani continuavano a combattere come quelli della X Mas dopo le perdite riportate nell’attacco a Gibilterra l’8 dicembre 1942. La base di partenza era sempre il mercantile “Olterra” ormeggiato ad Algeciras, davanti alla munitissima base navale britannica. Gli incursori cambiarono tattica e non operarono più come sommozzatori ma attrezzarono la stiva dell’“Olterra” per farne uscire i Siluri a Lenta Corsa, i “Maiali” che avevano già attaccato Malta e Alessandria.
Tre equipaggi andarono all’attacco nella notte del 7 maggio puntando verso i mercantili alla fonda, sfidando le bombe di profondità lanciate dalle navi di pattuglia e le correnti sfavorevoli che mandavano alla deriva i mezzi italiani. Il piano d’attacco prevedeva di minare ben sei mercantili ma fu possibile farlo, con enorme sforzo, solo per tre navi. I bauletti esplosivi detonarono la mattina dell’8 maggio e i tre mercantili furono portati su fondali bassi per evitare la perdita completa. I sei incursori (Tadini e Mattera, Cella e Montalenti, Notari e Lazzari) riuscirono a tornare sull’“Olterra” senza che gli inglesi si accorgessero della loro presenza.
In Tunisia la resistenza degli italo-tedeschi era ormai alla fine. Come abbiamo visto nelle puntate precedenti, la prima armata del generale Messe aveva logorato la ben più potente VIII armata del maresciallo Montgomery in due successive battaglie, sulla linea del Mareth in marzo e ad Akarit in aprile per poi bloccarla definitivamente sull’ultima linea difensiva di Enfidaville.
La V armata germanica, comandata dal generale von Vaerst, col fronte rivolto a ovest, aveva anch’essa dovuto retrocedere di fronte alla strapotenza della I armata britannica e del potente II corpo americano, richiedendo continui rinforzi alla I armata italotedesca. Per tutto il mese di aprile due corpi d’armata britannici, uno francese e uno americano avevano fatto pressione sulla V armata tedesca e sui resti dell’Afrika Korps senza ottenere grandi risultati ma logorando l’avversario. All’inizio di maggio l’offensiva alleata in Tunisia si era completamente arenata sia sul fronte occidentale che su quello meridionale.
Fu a questo punto che il sistema di decrittazione Enigma si rivelò, ancora una volta, decisivo, dando ai comandanti alleati la misura di quanto fosse disperata la situazione delle due armate dell’Asse in Tunisia, prive di rifornimenti e di rinforzi. Il generale Alexander, comandante in capo delle forze alleate, sapeva bene che l’VIII armata di Montgomery non era più in grado di attaccare. La prima armata italo-tedesca, che gli Alleati pensavano fosse ancora comandata da Erwin Rommel e non da Giovanni Messe, era arroccata con le unghie coi denti a ogni altura su un fronte ristretto, mentre uno sfondamento dei quattro corpi d’amata alleati sembrava più probabile.
Il 6 maggio venne rinnovata l’offensiva: gli italo-tedeschi avevano in tutto 60mila combattenti, 100 carri e 115 aerei contro 300mila soldati alleati, 1.400 carri e 3.420 aerei. E fu a questo punto che si vide la differenza tra i soldati tedeschi e gli italiani. Questi ultimi combattevano per ritardare il più possibile l’attacco diretto alla madrepatria; i tedeschi, sempre coriacei ma professionali, non vedevano l’utilità di morire in una lotta inutile. Fu così che, la sera del 6 maggio, all’inizio dell’ultima offensiva alleata il comandante in campo tedesco, generale von Arnim, ordinò di ritirarsi verso Biserta ma tale ritirata si trasformò in una rotta e in una resa delle unità tedesche.
Il 7 maggio gli americani di Bradley, che aveva sostituito Patton al comando del II corpo d’armata, entravano a Biserta, e lo stesso giorno gli inglesi entravano a Tunisi. Il giorno dopo la“ armata si liquefece, con i tedeschi che, pur rimanendo sempre ordinati e compatti, si arrendevano in massa, una divisione dopo l’altra. Il 9 si arrendeva anche il generale von Vaerst e la prima armata restava da sola a combattere, circondata da ogni parte. Con i cavalleggeri del Lodi che combattevano strenuamente, i reparti italiani della V armata, nel crollo generale, continuavano a ritirarsi combattendo verso Capo Bon con la prospettiva di un’ultima resistenza.
L’11 maggio anche il generale von Arnim si arrendeva dandone comunicazione a Messe e così anche l’Afrika Korps che, per due anni, si era battuta con valore pari alla perizia. Anche l’eccellente 90esima divisione tedesca gettava le armi l’11 maggio. Il 13 maggio, su ordine di Mussolini, anche Messe accettava la proposta di resa dopo trattative rese più difficili dal desiderio francese di catturare la prima armata: atteggiamento comprensibile in uno spirito di revanche ma contrario alla realtà dei fatti che aveva visto gli italiani combattere solo contro gli angloamericani.
Nel dramma finale vi fu spazio anche per una conclusione grottesca. Il generale Messe si presentò a Montgomery, convinto di aver avuto di fronte Rommel. Quale non fu la delusione dello strafottente maresciallo nel sapere che la causa del suo fallimento era questo energico pugliese che, da caporale, era divenuto maresciallo d’Italia, grado conferitogli il giorno prima da Mussolini!
Poiché Montgomery non poteva tollerare di essere stato messo nel sacco da un italiano, terrone per giunta, nelle sue memorie si dilungò sul fatto che gli italiani si arrendevano in massa e che aveva combattuto solo contro truppe tedesche comandate da Rommel. Come si è visto gran parte della prima armata era composta da reparti italiani ma, già da allora, era iniziata un’operazione di propaganda di disprezzo degli italiani, peraltro non condivisa da generali più equilibrati come Alexander. Un’operazione che avrebbe visto corresponsabili i comandi dell’esercito e il re Vittorio Emanuele di lì a pochi mesi e che, malgrado gli sforzi di ristabilire la verità storica sulla resistenza delle divisioni italiane in Tunisia, sembra, oggi, perfettamente riuscita. Una nazione che ignora il proprio passato è più facilmente manipolabile.
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