In quell’estate di fuoco, come si è visto nella puntata precedente, le forze dell’Asse erano all’offensiva su tutti i fronti. Per quanto la penuria di generi alimentari stesse diventando drammatica in Italia, le forze armate italiane avevano raggiunto un livello di efficienza e combattività tali da competere con inglesi e russi. Tutto questo con due anni di ritardo. L’inferiorità nei mezzi e negli armamenti era compensata dall’addestramento e dal coraggio dei combattenti che, proprio in forza di questo orgoglio riguadagnato sul campo con tanti sacrifici, non sopportavano più la retorica del fascismo e iniziavano a prenderne le distanze.
Esemplare è il comportamento del capitano Carlo Emanuele Buscaglia, l’asso degli aerosiluratori. A soli 26 anni aveva compiuto 29 attacchi mettendo segno 24 siluri: scrupoloso, severo ma paterno (come lo si può essere a quell’età) era diventato uno degli eroi più straordinari del conflitto. Proprio questa sua serietà lo portava a rifiutare la vuota verbosità fascista. Racconta Martino Aichner nel suo Il gruppo Buscaglia e gli aerosiluranti italiani (Longanesi) che un segretario federale si recò in visita presso il gruppo e fece questa arringa con le braccia incrociate sul petto, imitando la mimica del Duce: “Io vi seguo con il cuore e con l’anima, mentre voi, superando ogni umano ardimento, spingete le vostre fragili ali tra il micidiale fuoco delle navi nemiche, incuranti del pericolo, sorretti dal vostro indefettibile amore per la patria, per portare sino all’olocausto, nel nome del re e del Duce, altri allori ai trionfi della grande Roma imperiale”. Al che Buscaglia replicò, usando intenzionalmente il “lei”, vietato dal fascismo: “La ringrazio a nome di tutti per le belle parole che ci ha dedicato e sono lieto di farle presente che, se oltre che con il cuore e con l’anima, lei volesse seguirci con il corpo, noi saremmo orgogliosi di riservarle un posto alla prima occasione, su uno dei nostri velivoli. E ora ho il piacere di invitarla a colazione”. Colazione che deve essere andata di traverso al suddetto federale che, superfluo il dire, non accolse l’invito di Buscaglia di salire su un aerosilurante per attaccare i convogli nemici.
Di lì a poco, dal 10 al 14 agosto si combatté quella che passò alla storia come la “battaglia di mezzo agosto”. Un grande convoglio inglese, composto da 13 piroscafi e 2 petroliere, scortato da 4 portaerei, 2 corazzate, 7 incrociatori e 34 cacciatorpediniere, partì da Gibilterra il 10 agosto: era l’inizio dell’operazione Pedestal. Per cinque giorni sommergibili e aerei italiani e tedeschi inflissero perdite paurose al convoglio. In quell’occasione il sommergibile Axum, comandato dal tenente di vascello Renato Ferrini, affondò un piroscafo e l’incrociatore Cairo mentre altri sommergibili come il Bronzo e l’Alagi colpirono pesantemente il convoglio. Notevole fu l’impresa dei nostri Mas che, nella notte del 12, affondarono l’incrociatore Manchester e cinque piroscafi. Malgrado il sacrificio e i successi conseguiti dagli italo-tedeschi, gli inglesi riuscirono a portare a destinazione quattro mercantili e una petroliera: abbastanza per permettere a Malta di resistere ancora. Le sorti del conflitto in Africa Settentrionale si decidevano molto più lontano a El Alamein.
Nel corso del mese di luglio giunsero rinforzi e rimpiazzi per l’armata italo-tedesca, insufficienti a contrastare una crescente superiorità britannica in uomini e mezzi. Da parte tedesca giunse in linea la 164ma divisione di fanteria e la 22ma brigata paracadutisti, comandata dal colonnello Hermann Ramcke, mentre per gli italiani, oltre alla divisione corazzata Littorio, venne portata al fronte la divisione paracadutisti Folgore, armata alla leggera ma con un addestramento e un’aggressività assolutamente eccezionali.
Il 30 agosto Rommel sferrò la sua ultima offensiva, conscio di rischiare il tutto per tutto. La Brescia, la Folgore e la brigata Ramcke attaccarono al centro dello schieramento: un attacco dimostrativo che servì ad attirare le riserve e permettere lo sfondamento dell’ala sinistra britannica da parte delle forze corazzate italo-tedesche e cioè 21mo e 15mo panzer insieme ad Ariete, Trieste e Littorio. La prima mossa toccò alla Folgore e il suo X battaglione era comandato da un ufficiale d’eccezione, il maggiore Aurelio Rossi, con l’obbiettivo di conquistare l’altura di Deir Alinda. Volontario a 19 anni, ufficiale degli arditi sul Piave, ferito quattro volte e decorato cinque, Rossi, dopo la guerra aveva alternato gli studi di giurisprudenza alle esplorazioni africane. Tornato alle armi con la guerra d’Etiopia aveva superato la selezione della Folgore a quarant’anni suonati, rivaleggiando coi ragazzi e diventando uno dei comandanti più aggressivi e audaci della divisione. Al momento dell’attacco il maggiore Rossi, seguendo una tradizione risorgimentale e patriottarda, come tanti uomini della sua generazione, ordinò al suo trombettiere di suonare la carica. E così, alla fine del bombardamento di preparazione, uno squillo di tromba echeggiò fra le dune e i paracadutisti andarono all’assalto delle postazioni britanniche. Il colonnello Alberto Bechi di Luserna, comandante di reggimento della Folgore, così ricorda quel momento: “Una tromba nel deserto di El Alamein … Par d’essere tornati indietro di cent’anni. Un attimo di silenzio improvviso come se tutti, amici, nemici, mortai, mitragliatrici siano ammutoliti dallo stupore. Poi l’urlo d’un battaglione che assalta e l’inferno di scoppi e di schianti riprende violento. Altre urla d’assalto. L’intera linea attacca. I battaglioni sono partiti di slancio dietro a quello squillo di tromba ottocentesco senza attendere il razzo rosso. “È Rossi. Non può essere che lui, quel matto – dicono al comando tattico e non sanno se ridere o arrabbiarsi. È lui, infatti, il maggiore Aurelio Rossi. Se l’era portata dall’Italia, all’insaputa di tutti, la tromba del battaglione… È un garibaldino in ritardo, Rossi” (Alberto Bechi di Luserna, I ragazzi della Folgore, Longanesi, p. 98).
I battaglioni della Folgore avanzarono nei campi minati e sfondarono la resistenza della 5a brigata neozelandese ma dovettero fermarsi il giorno dopo, praticamente circondati dal nemico. Il generale neozelandese Clifton propose la resa ai paracadutisti, minacciando di schiacciarli col fuoco di venti batterie, ma il colonnello Luigi Camosso rispose che tale offerta era un insulto. Il fuoco dei cannoni riprese violentissimo ma i folgorini resistettero fino a quando non iniziò l’offensiva più a sud e i mezzi della 90ma leggera tedesca e dell’Ariete aggirarono i neozelandesi. Tutta la 5a brigata venne presa in trappola e, quella sera, il generale Clifton, fatto prigioniero, era di nuovo alle prese col colonnello Camosso. L’interprete riferì a Camosso il commento sconsolato del generale: “Dice che non si immaginava, venendo a parlamentare, di finire così la giornata”. E Camosso: “Rispondigli che sono cose che capitano a chi bazzica la Folgore”.
La battaglia durò sei giorni e Rommel, privo di carburanti, fermato dai campi minati e con i suoi reparti continuamente bersagliati dall’aviazione avversaria, dovette fermarsi. Il 3 settembre negli ultimi giorni di battaglia cadde anche il maggiore Aurelio Rossi che si era arrampicato su un carro armato Grant per aprire la botola e scagliare una granata all’interno del mezzo. “Una raffica di mitraglia avrebbe chiuso il ciclo di un’esistenza romanzesca e insigne, di quelle che reggono persino lo stato fallimentare di una nazione intera” (Paolo Caccia Dominioni, El Alamein, p. 202).
(1 – continua)
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