Ma è in Russia che i soldati italiani, nel mese di agosto 1942, compirono una delle imprese più spettacolari del conflitto.
La divisione Celere, che aveva mostrato notevole efficienza ed aggressività, veniva mandata a cooperare con le divisioni tedesche attorno a Stalingrado. L’obbiettivo era quello di eliminare la pericolosa testa di ponte di Serafimovich. La battaglia iniziò il 30 luglio. Per i fanti piumati del terzo e del sesto reggimento bersaglieri furono giornate terribili, tra le più importanti e gloriose nella storia di questo corpo scelto. Impegnati in un compito superiore alle loro forze, i bersaglieri del terzo reggimento conquistarono quota 197 per poi ritrovarsi accerchiati dalla controffensiva sovietica alle 6 del mattino del 1° agosto. L’arrivo di rinforzi italiani e tedeschi permise di sbloccare la situazione e portò alla conquista della testa di ponte. All’alba del 2 agosto ripresero i combattimenti. Il terzo reggimento, alla sinistra dei tedeschi, stava rastrellando i boschi a est di Serafimovich col suo colonnello, Aminto Caretto, in testa a tutti. Una granata di mortaio esplose nei pressi di Caretto e una scheggia gli frantumò il ginocchio. Il colonnello veniva portato all’ospedale da campo 46 ma spirava due giorni dopo a causa di una cancrena gassosa. La morte di “papà Caretto” ferì nel profondo i bersaglieri, privati di una figura leggendaria che aveva guidato in battaglia il reggimento alla conquista di due medaglie d’oro alla bandiera.
Mentre i bersaglieri combattevano, erano giunte sulla linea del fronte le divisioni del XXXV corpo d’armata italiano andando a occupare un settore lasciato sguarnito dai tedeschi. Le linee erano estremamente sottili, i capisaldi radi e dotati di scarsa potenza di fuoco e il 20 agosto la 63esima armata sovietica passò all’attacco nel settore difeso dalla divisione Sforzesca. I due reggimenti della divisione cedettero di schianto di fronte a un’enorme superiorità in uomini e mezzi.
Il crollo della Sforzesca fu così repentino che le venne affibbiato il nomignolo di “divisione Cikai” (scappa). In realtà si trattava di soldati “ordinariamente” coraggiosi, con armamento e addestramento inadeguato a sostenere un compito ben superiore alle loro forze. Il generale Messe dovette prendere atto della situazione e ordinare il ripiegamento, fissando due capisaldi a Jagodnij e a Tchebocharevskij. A tenere i collegamenti tra i due pilastri difensivi, erano stati destinati il reggimento di artiglieria a cavallo e i reggimenti di cavalleria “Lancieri di Novara” e “Savoia” che, il 23 agosto, furono inviati per una ricognizione in profondità e minacciare di aggiramento le truppe sovietiche avanzanti.
Messe, evidentemente, pensava che, minacciando fianchi e retroguardia dei russi, questi avrebbero rallentato il ritmo dell’offensiva, dando fiato alla difesa italiana. I lancieri di Novara, che si erano battuti per evitare la caduta di Jagodnij, avanzarono fin quasi al Don a quota 211 per poi ritornare a Tchebocharevskij. Il “Savoia”, invece, puntò all’estrema destra dello schieramento a quota 211 ma, all’alba del 24, scoprì di essere praticamente circondato. A sbarrare la strada del ritorno vi erano tre battaglioni russi, dotati di mortai e armi automatiche, trincerati intorno a Isbuscenskij. Il colonnello Alessandro Bettoni di Carrago decise immediatamente di sfondare lo sbarramento con un attacco frontale e sul fianco sinistro del nemico. Una pattuglia del primo squadrone partì in ricognizione ma, quando si trovò a ottocento metri dall’abitato, incappò in una violentissima reazione di fuoco. Gli uomini avevano compreso che, questa volta, non avrebbero combattuto come fanteria, ma come cavalieri, come era stato loro insegnato da una tradizione secolare e che non avevano mai potuto seguire fino in fondo.
L’emozione, la tensione erano altissimi e i cavalieri così esaltati da non temere il piombo che stava arrivando loro addosso. I cavalli partirono al trotto, poi venne ordinata la carica, la tromba mandò il segnale, il tricolore con lo stemma dei Savoia sventolò sulla steppa. Il grido “Savoia!” lasciò interdetti i russi, stupiti da tanto coraggio che fecero fuoco poi fu la mischia con i cavalieri che attaccavano i russi sparando, sciabolando, tirando bombe a mano. La prima linea russa fu travolta ma la battaglia rimase durissima. Venne il momento dello squadrone del capitano Silvano Abba, campione di pentathlon moderno, medaglia di bronzo alle Olimpiadi Berlino del 1936. Abba fece scendere i suoi uomini da cavallo e andò all’attacco sparando col mitragliatore, facendo il vuoto tra le file nemiche. Bettoni mandò in combattimento anche il primo squadrone del capitano Aragona che prese i russi con fuoco di infilata. L’urto decisivo venne affidato al terzo squadrone del capitano Marchiò che partì anch’esso alla carica. Il maggiore Alberto Litta Modignani raggiunse i suoi uomini lanciando la sua cavalcatura al galoppo allungato, seguito dai suoi attendenti. Questi vennero uccisi uno dopo l’altro e lo stesso Litta Modignani fu ferito gravemente e anche il suo cavallo venne abbattuto. Riuscì a montare su un altro cavallo e si avventò su una postazione di mitragliatrice sciabolando i serventi ma una seconda pallottola gli spaccò il cuore. Poco più lontano anche il capitano Abba veniva ucciso da una pallottola in fronte ma la battaglia era vinta. Il reggimento aveva subìto gravi perdite: quaranta morti e settanta feriti ma i russi erano stati sbaragliati con un centinaio di morti, trecento prigionieri, quattro cannoni e l’intero equipaggiamento di tre battaglioni.
Uno sguardo critico della situazione strategica avrebbe già visto la debolezza del nostro settore e previsto i disastri futuri. Ma la sera del 24 agosto c’era posto solo per la gloria degli italiani, per usare le parole di Caccia Dominioni “di quelle che reggono persino lo stato fallimentare di una nazione intera”.
(2 – fine)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.