L’attuale situazione politica della Libia sembra complicarsi sempre più. Fallita di fatto la Conferenza di Berlino, chiusi buona parte dei pozzi petroliferi gestiti dall’Eni, le due fazioni in conflitto, quella del generale Khalifa Haftar in Cirenaica e del governo Fayez al Serraj di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, sembrano sempre più distanti.



Per di più l’arretramento della politica americana nel mondo arabo e l’interesse verso la Libia, mostrato dalla Turchia che duetta con la Russia, quest’ultima nuova potenza emergente in Medio Oriente e nel Mediterraneo, mettono in evidenza la fragilità della posizione italiana.

Una situazione apparentemente insanabile, come nel 1986, al tempo dello scontro tra Gheddafi e Reagan, quando il primo fomentava il terrorismo internazionale e il secondo reagiva con la fermezza delle azioni militari.



È appena uscito un prezioso volume pubblicato da Edizioni di Storia e Letteratura (Roma, 2019) dal titolo Andreotti e Gheddafi, Lettere e documenti 1983–2006, in cui si può trovare il carteggio integrale tra il leader libico e l’allora ministro degli Esteri e poi capo del governo (Andreotti VI e VII), con alcune missive che vanno sino al 2006, ben oltre gli incarichi istituzionali.

Il materiale archivistico è tratto integralmente dall’archivio personale di Giulio Andreotti, conservato presso l’Istituto Sturzo di Roma. I curatori, Massimo Bucarelli (Università del Salento) e Luca Micheletta (Università La Sapienza di Roma) precisano che non si tratta di documentazione proveniente dai fondi del ministero degli Esteri, in quanto, com’è noto, gli archivi delle istituzioni pubbliche non possono essere consultati se non dopo 50 anni.



La puntualità di questo volume rispetto alla guerra civile libica è sorprendente e permette un’intelligibilità delle relazioni Italia–Libia molto approfondita. Inoltre emerge anche il valore storico della documentazione dell’archivio Andreotti.

L’arco temporale dei documenti è quello che va dall’avvio del processo di riavvicinamento fra l’Italia e la Libia di Gheddafi nel 1984, coincidente con l’inizio della crisi libico–statunitense del 1985–1986, fino alla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 31 marzo 1992, con cui venne decretato l’isolamento internazionale della Libia.

Come spiega nella prefazione Francesco Lefevre D’Ovidio (Università di Napoli), sono quattro le fasi in cui Andreotti cercò di agganciare il leader libico, in un contesto estremamente difficile. Per primo, grazie a due missioni in Libia nel 1984, ci fu il tentativo di Andreotti di attuare la cosiddetta “strategia della pazienza”, che aveva lo scopo di portare a soluzione i problemi bilaterali e far rientrare la crisi con gli Stati Uniti. Tuttavia a Washington prevalse la linea dura del segretario di Stato Schultz e la superpotenza volle vendicare l’attentato alla discoteca di Berlino contro militari Usa con l’operazione “El Dorado Canyon” del 15 aprile 1986 e il successivo lancio dei due missili Scud su Lampedusa da parte dei libici.

La crisi del Golfo della Sirte portò a una battuta d’arresto del processo di avvicinamento e, terzo momento, solo nel novembre 1988 ci fu una lenta ripresa dei rapporti bilaterali con i colloqui con Jallud, primo ministro libico. Anche in quest’occasione la tessitura di Andreotti andò in fumo a causa dell’attentato al volo della Pan American su Lockerbie del dicembre 1988.

Il politico democristiano non demorse, tanto che da presidente del Consiglio volle una ripresa dei negoziati e la firma del “processo verbale” del 5 giugno 1991, siglato a Tripoli da Andreotti e Gheddafi, rimasto privo di attuazione a seguito della risoluzione dell’Onu del 1992, che isolò la Libia, ma destinato a essere la base e il modello del successivo accordo del 2008 firmato da Berlusconi.

Andreotti è uomo del dialogo e tenta sempre di mettersi nei panni degli interlocutori. Pur comprendendo la posizione degli Stati Uniti e condividendo le profonde diffidenze suscitate dal regime del colonnello libico negli ambienti governativi statunitensi, lo statista democristiano non credeva che Gheddafi fosse un nemico dell’Occidente ed era convinto che fosse possibile riportare la Libia nell’alveo della convivenza internazionale.

La politica internazionale si poteva fare se si lasciavano aperte tutte le porte e il complesso gioco delle relazioni doveva tener conto sia dell’imprevedibilità del leader libico, con le sue mosse azzardate, sia della politica americana, che a tutti i costi aveva bisogno di un bad boy da additare alle diplomazie, ma soprattutto alla propria opinione pubblica.

Andreotti nei colloqui diretti, come si evince dai 93 documenti editi nel volume, percepì invece che Gheddafi non era del tutto “anti-americano” e che le sue aperture gli sembravano animate anche da un certo grado di sincerità e non voleva lasciare inesplorata una trattativa che forse avrebbe potuto evitare la crisi libico-statunitense.

A rischio di ambiguità e possibili attriti con l’alleato americano il ministro degli Esteri si oppose all’opzione militare che portò alla crisi del Golfo della Sirte nel 1986, in quanto non avrebbe distolto la Libia dall’appoggiare le organizzazioni terroristiche. Ma dopo il lancio dei due missili su Lampedusa Andreotti ribadì in Parlamento la fedeltà alla linea atlantica e a quella europea, più moderata, perché il dialogo non significava non denunciare le gravi responsabilità del governo di Tripoli. Ed è qui che nel governo Craxi-Andreotti si consolida l’autonomia e la capacità di proposta della cosiddetta politica mediorientale, incentrata sul dialogo anche tra Israele e Al–Fatah, tra il blocco sovietico e l’Europa occidentale.

Dalla lettura dei testi e delle introduzioni alle due sezioni si evince che il dialogo si interruppe nuovamente quando divenne chiaro il coinvolgimento della Jamahiriya nell’attentato al volo Pan Am del 21 dicembre 1988 su Lockerbie, in Scozia, in cui persero la vita 243 persone. Questa volta l’amministrazione statunitense, dopo che furono individuate le prove delle responsabilità libiche, escluse di ripetere l’attacco militare del 1986, manifestando maggiore cautela. Gli Usa, ora guidati da George Bush senior, preferirono seguire una linea meno ideologica e riuscirono a coinvolgere tutto l’Occidente nell’isolamento diplomatico della Libia, con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu, l’ultima delle quali sottoponeva la Libia a un completo isolamento internazionale.

In quel frangente, in una lettera di metà aprile 1992, Gheddafi si rivolgeva al Presidente del Consiglio italiano con la formula “Amico coraggioso e fedele”; con un ulteriore tentativo, nel dicembre 1992, chiedeva allo stesso Andreotti di intervenire per aiutare la Libia “ad uscire dalla situazione di isolamento” nella quale si trovava e a farsi latore di proposte conciliative. Il dialogo e la fiducia interpersonale, come emerge da questi testi, spesso valgono molto di più dei trattati.

I documenti presentati nel libro curato da Micheletta e Bucarelli sono estremamente preziosi, in quanto permettono al lettore, non necessariamente esperto di politica internazionale, di farsi una chiara idea della posizione italiana nella complicata questione libica sin dalle origini, e permette di censurare interpretazioni e ricostruzioni inesatte sui rapporti tra i due paesi nell’era di Gheddafi, che ancora oggi circolano sui media.

Un libro, dunque, che è bene leggere, perché permette una presa diretta dei fatti libici, ma consente anche di andare a lezione dal professor Andreotti, per imparare i delicati meccanismi della politica estera.