Nell’aprile del 1943 la guerra che, da europea, era diventata mondiale, conobbe una nuova svolta, sprofondando in sempre più allucinanti atrocità. In quelle settimane i tedeschi scoprirono le fosse comuni di Katyn, dove i sovietici avevano seppellito frettolosamente migliaia di ufficiali polacchi fatti prigionieri e uccisi nel 1940. I nazisti, da parte loro, sempre in quell’aprile, rasero al suolo il ghetto di Varsavia trucidando 13mila ebrei e deportandone nei campi di sterminio almeno 300mila: eppure, in quei giorni tremendi, gli ebrei si scrollarono di dosso una tradizione di resistenza passiva e combatterono contro i nazisti con le poche armi che possedevano, segnando la rinascita della storia militare di Israele.



Di tutto questo gli italiani sapevano ben poco e gliene importava ancora meno. Ormai si faceva la fame ovunque e le città del Sud venivano bombardate ogni giorno. Solo in quell’aprile a Grosseto vi furono 134 morti, a Siracusa 125, Messina fu bombardata sette volte, Trapani cinque, Palermo nove.  La città più colpita fu ancora una volta Napoli, dove, alla fine di marzo, era accaduta una tragedia apocalittica. Il 28 marzo la motonave “Costa” stava per partire per la Tunisia con un carico altamente esplosivo: 790 tonnellate di carburante, 900 di esplosivi e 1.700 di munizioni. Per cause ancora oggi sconosciute (sabotaggio o incidente) si sviluppò un incendio nella stiva della nave. Secondo le cronache dell’epoca vi fu imprevidenza, leggerezza, mancanza di tempestività e la nave saltò in aria con un effetto simile a quello dell’esplosione che devastò il porto di Beirut il 4 agosto 2020. La banchina sprofondò, un pezzo di nave volò in aria e piombò su due fabbricati abbattendoli, lamiere mortali falciarono vite in punti anche lontani dal porto. Per dare un’idea della tragedia, le vittime furono più di 500, il doppio delle vittime di Beirut. Ebbene, su quella città devastata le “Fortezze volanti” americane colpirono per ben dieci volte in un mese, uccidendo altre quattrocento persone.



Quanto alle nostre forze armate era ormai rimasto ben poco. In Jugoslavia intere divisioni erano impegnate nella lotta antipartigiana che diventava sempre più crudele. In Africa, come si è detto nelle precedenti puntate, la I armata comandata dal generale Messe teneva ancora impegnata l’VIII armata britannica, imbastendo una frettolosa difesa sullo uadi Akarit. Ed era una resistenza il cui esito era segnato, perché i rifornimenti non arrivavano più dalla Sicilia dato che la strapotenza aeronavale alleata stava strangolando le forze italo-tedesche.

Se queste erano le circostanze oggettive, non emersero nell’incontro tra Hitler e Mussolini avvenuto a Klessheim dal 7 al 12 aprile, anzi Mussolini tornò in Italia convinto da Hitler che fosse necessario resistere il più possibile. “Se resistiamo – scriveva Mussolini nella relazione finale – possono crearsi situazioni strategiche nuove. Se cediamo gli americani e gli inglesi possono liberare tre armate. BISOGNA (in maiuscolo nel testo) resistere. Questo deve essere l’unico pensiero della gente sul posto; nessuna speranza, solo quella di resistere fino alla fine”.



In altre parole, non c’era nessuna speranza per le decine di migliaia di uomini che combattevano in Tunisia e non si poteva ormai più attuare una colossale evacuazione in stile Dunquerque, che sarebbe stata possibile, forse, solo entro gennaio 1943. Era una resistenza che faceva comodo ai due dittatori perché rimandava, anche solo di qualche settimana, l’attacco diretto all’Europa e che si affidava al senso del dovere dei combattenti.

Alle 23 del 6 aprile Montgomery scatenava iniziava un furioso bombardamento e il fronte delle divisioni “La Spezia”, “Pistoia” e “Trieste” veniva attaccato dalla IV divisione indiana e dalle 50esima e 51esima britanniche. La resistenza italiana era accanita e la “Trieste”, col suo I battaglione del 66esimo reggimento, condotto dal capitano Mario Politi, riconquistava rapidamente tutte le posizioni perdute inizialmente: non così per i capisaldi tenuti da “La Spezia” e “Pistoia” nonostante l’eroismo di tanti, come il tenente Giovanni Iannaccone dell’80esimo reggimento di artiglieria o del sergente Vinicio Rossi dell’artiglieria controcarro, entrambi della “Spezia”, entrambi decorati con la Movm alla memoria. Date le forze disponibili, Messe, d’accordo con von Arnim, predisponeva una ritirata a scaglioni per una lunghezza di 250 chilometri, sempre continuando a combattere e a ritardare l’avanzata avversaria.

La nuova linea di resistenza a Enfidaville prevedeva la lotta a oltranza: più indietro non si poteva andare. Le posizioni chiave di questo fronte, Takrouna e Garci, erano state affidate a reparti di proverbiale saldezza come il battaglione del capitano Politi e ai cavalleggeri del “Novara” e del “Lodi”. Gli angloamericani, da parte loro, erano convinti che, insistendo sull’armata italiana, il successo non sarebbe mancato, mentre il fronte della V armata tedesca rimaneva sostanzialmente calmo.

Il 19 aprile iniziava la terza grande battaglia di questa campagna. Le fanterie inglesi attaccarono con la consueta ferocia, ma Takrouna resistette bene a tutti gli attacchi portati dai maori neozelandesi. La battaglia attorno a questo caposaldo è tuttora sconosciuta agli italiani, salvo a pochi studiosi di storia militare, a cominciare dal suo protagonista: Mario Leonida Politi, nato a Sulmona il 10 ottobre 1913. Biondo, atletico, viso spavaldo da divo hollywoodiano, Mario Leonida (nomen omen!) era un eccellente ufficiale che aveva fatto la guerra in Libia con la divisione “Trieste” fin dall’agosto 1941. Tra le numerose decorazioni citiamo una croce di ferro tedesca di seconda classe, conferita in data 3 settembre 1942 e una croce di ferro di prima classe conferita in data 11 gennaio 1943 con brevetto firmato dal maresciallo Rommel. A ciò vanno aggiunte due medaglie d’argento per le battaglie di El Alamein e del Mareth e una citazione nel bollettino di guerra del 22 aprile per un vittorioso scontro contro truppe neozelandesi. La sua fama era tale che il suo nome in codice divenne “Galliano” e quella del caposaldo di Takrouna “Macallè”: nomi che rievocavano le gesta di una grande combattente nella guerra d’Etiopia del 1896.

La battaglia per Takrouna fu spaventosa ed epica. Gli uomini di Politi seppero contrattaccare e riconquistare posizioni perdute con un eroismo che fu collettivo. Il portaordini Aurelio Sbottoni si apriva la strada a colpi di bombe a mano per compiere la propria missione. Presso l’infermeria del battaglione il tenente medico Moretti stava per essere fatto prigioniero quando giunse il cappellano don Maccariello a tenere lontani i neozelandesi lanciando granate. Il sergente Claudio Bressanini dopo aver compiuto atti di straordinario valore veniva falciato da una raffica di mitra all’addome. Soccorso dal cappellano riusciva a dire ”Ho fatto tutto il mio dovere. Per me è finita. Salvate l’Italia” e scriveva su un pezzo di carta col proprio sangue “W l’Italia. W il re”.

In soccorso di Takrouna mossero i paracadutisti del battaglione “Folgore”, gli ultimi superstiti dell’epopea di El Alamein, che attaccarono il villaggio issandosi lungo pareti verticali, sfruttando l’addestramento da alpini paracadutisti. La battaglia nel villaggio fu terribile, casa per casa, ma i neozelandesi non riuscirono a passare. All’alba del 21 aprile il caposaldo era ancora in mano italiana ma gli assalti erano incessanti, supportati da una valanga di esplosivo. Alle due del pomeriggio Politi inviava l’ultimo messaggio prima che la posizione fosse travolta. “Situazione criticissima, disperata, abbiamo sparato le ultime cartucce. Le perdite sono ingenti. Il nemico ha occupato quasi totalmente le posizioni. Moltissima fanteria nemica che aumenta sempre. Situazione disperata. Fate presto. Fate presto”.

Venne inviato come rinforzo la 103esima compagnia arditi paracadutisti ma non poteva bastare. Takrouna cadde quella sera, ma il caposaldo di Garci resistette altri due giorni e un contrattacco dei resti della divisione “Pistoia” respinse la IV divisione indiana. Il 25, l’VIII armata cercava di sfondare nel settore tenuto dalla “Giovani Fascisti” ma non riusciva a passare. Il volontario Stefano David, unico superstite di un caposaldo, rimasto gravemente ferito, veniva catturato e spinto verso le posizioni tenute dai suoi compagni con l’intento di compiere un assalto di sorpresa. Nella luce della luna David si fece riconoscere dai suoi compagni che gli andarono incontro festanti ma, all’ultimo istante gridò: “Seconda compagnia, fuoco! Fuoco! Sono nemici!” facendosi uccidere dal fuoco amico insieme ai suoi catturatori. Con questo attacco la linea di Enfidaville tenne e Montgomery subì una seconda sconfitta. Questa volta non c’era stato spazio per aggiramenti o per manovre e l’VIII armata aveva logorato tutte le proprie divisioni senza cogliere la vittoria.

Politi venne catturato insieme ai pochi superstiti. Promosso maggiore per merito di guerra, gli venne conferita una terza medaglia d’argento e venne liberato alla fine della guerra, rientrando a prendere servizio nell’esercito e diventando generale di corpo d’armata. Sposatosi ad Ancona con Adele Marchetti, Mario Leonida Politi morì nel 2008, ma la consorte continuò ad essere la madrina del reggimento “Trieste” fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 2022 all’età di 103 anni. Mario Leonida e Adele erano i rappresentanti della nostra “Best generation”, quella che ha perso la guerra e vinto la pace. A noi tocca il semplice dovere di non dimenticarli.

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