“A primavera verrà il bello!” aveva sentenziato Mussolini e, in effetti, così fu. Il 6 aprile 1941 la Germania attaccava la Jugoslavia, rea, secondo Hitler, di aver rinnegato l’alleanza col Reich. In meno di dieci giorni ogni resistenza venne infranta e il 17 aprile la Jugoslavia si arrendeva. Il suo destino sarebbe stato quella di essere smembrata: un pezzo alla Bulgaria, un altro pezzo all’Ungheria, la Slovenia veniva annessa all’Italia e la Croazia diventava un reame “indipendente” conferendo la corona ad Ajmone d’Aosta, duca di Spoleto.
Sempre i tedeschi, partendo dalla Bulgaria, attaccavano la Grecia, sbaragliavano ogni resistenza, compresa quella di un corpo di spedizione inglese che venne affrettatamente fatto reimbarcare: un’altra Dunquerque alla quale gli inglesi sembravano essere ormai abituati.
Il 21 aprile i plenipotenziari greci si arrendevano ai tedeschi e il fatto fece andare su tutte le furie Mussolini che ordinò di rifare la cerimonia il 23 successivo, a Salonicco, alla presenza di rappresentanti italiani. Si concludeva così la campagna di Grecia che aveva rivelato al mondo la pochezza del potenziale militare italiano. Il costo per un’impresa concepita e attuata all’insegna del dilettantismo e della noncuranza per le sofferenze dei soldati fu molto alto: 13mila morti, 50mila feriti, più di 20mila prigionieri. Un numero molto alto, quest’ultimo, che riflette come i greci fossero stati quasi sempre all’offensiva e fossero stati a un nulla dal ributtare in mare gli italiani.
Ma quel che contava era la vittoria, l’acquisizione di nuovi punti di forza nei Balcani: o no? Perché è proprio da quella primavera, quando l’alleato tedesco fa sentire il peso della propria spietata e letale efficienza, che gli italiani iniziarono a meditare su due fatti incontrovertibili: il primo è che, nonostante la propaganda bellica del fascismo, la nostra impreparazione era palese; la seconda è che la Germania nazista aveva salvato l’Italia dalla sconfitta, in Grecia e in Africa settentrionale. Qui, infatti, nel corso del mesi di aprile e di maggio, Erwin Rommel con pochi reparti tedeschi, affiancati da divisioni italiane organizzate in modo più razionale ed efficiente di quelle annientate quattro mesi prima dall’offensiva del generale Wavell, aveva sconfitto a più riprese gli inglesi e assediava Tobruk, difesa dai tenaci australiani della 9a divisione.
La marina inglese subì, in quei mesi, perdite crudeli ad opera degli Stukas tedeschi. Malta veniva quotidianamente attaccata da bombardieri italo-tedeschi ma continuava a resistere e dai suoi porti partivano cacciatorpediniere e sommergibili che decimavano la nostra flotta mercantile sulla rotta per la Libia. Il 20 maggio, poi, iniziò l’operazione “Merkur” per la conquista dell’isola di Creta. Un’operazione così spregiudicata e audace da stupire ancora oggi per come venne portata a termine. La 7a divisione paracadutisti tedesca si lanciò sugli aeroporti di Maleme e La Canea subendo perdite spaventose ma riuscendo a conquistare gli obiettivi. Qui altri velivoli da trasporto, gli Junker 52, portarono truppe da montagna germaniche mentre altre ancora venivano sbarcate sulla costa settentrionale dell’isola. La nostra marina, in questa lotta titanica, non si fece vedere tranne che per i soliti, audacissimi comandanti e marinai del naviglio leggero, destinati al sacrificio senza troppi rimpianti. E fu in questa occasione che, nelle notti del 22 e del 23 maggio, due torpediniere, la “Lupo” e la “Sagittario”, comandate rispettivamente dagli ufficiali Francesco Mimbelli e Giuseppe Cigala Fulgosi, affrontarono, in due scontri distinti, una forza britannica composta da tre incrociatori e quattro cacciatorpediniere. In ambedue i casi le navi italiane, crivellate di colpi, sopravvissero allo scontro, così come i loro comandanti: la “Sagittario”, al contrario della “Lupo”, riuscì persino a salvare le imbarcazioni cariche di soldati tedeschi tanto che Cigala Fulgosi fu decorato con la Croce di ferro.
In Africa Orientale, nonostante la caduta di Addis Abeba, si continuava a combattere nei diversi capisaldi posti in quell’immenso territorio e i soldati italiani combattevano e morivano pur senza avere alcuna speranza di vittoria, perché ogni resistenza attirava forze britanniche distogliendole dall’Africa settentrionale. Il 19 maggio 1941 il duca Amedeo D’Aosta, esaurita ogni possibilità di difesa, si arrese con l’onore delle armi e i superstiti di quella resistenza sfilarono incolonnati davanti alle truppe inglesi mentre le cornamuse suonavano “Flower of the forest”: lo stesso brano che è stato eseguito durante il funerale del principe Filippo di Edimburgo. Il duca avrebbe potuto salvarsi in aereo e gli era stata prospettata questa ipotesi, ma la rigettò perché un comandante non abbandona mai i propri soldati e il suo onore, la sua reputazione valevano più della libertà e della vita. D’altra parte nemmeno la sua consorte, la splendida Anna d’Orléans, avrebbe approvato una sua fuga. Erano tempi in cui si poteva restare prigionieri dell’onore e della parola data. No, tornare in Italia non si poteva; come avrebbe potuto presentarsi a corte Amedeo dopo che, ad alta voce, nel 1921, aveva accolto il re e la moglie Elena di Montenegro dicendo: “Ecco a voi Curtatone e Montanara” citando due battaglie risorgimentali ma che facevano riferimento all’altezza del re e alle origini della regina? La sua sorte era ormai segnata. Nemmeno un anno dopo, il 3 marzo 1942, il principe Amedeo veniva stroncato dalla tubercolosi.
Così, nella primavera del 1941 gli italiani iniziavano a provare simpatia per l’alleato tedesco e questo fatto va tenuto presente per gli sviluppi futuri. Ma, sia pur perdente in guerra, il sacrificio di tanti italiani che si battevano con onore e umanità iniziava a riscattare la credibilità del nostro paese. E così il negus Hailé Selassié, nonostante gli eccidi e i crimini commessi dagli italiani nel proprio paese, avrebbe sempre dimostrato rispetto per la casa D’Aosta, dato il comportamento ineccepibile del principe Amedeo: e due nuovissime navi della nostra marina portano i nomi degli eroici “Francesco Mimbelli” e “Giuseppe Cigala Fulgosi”. Come dice Decimo Massimo Meridio nel film Il Gladiatore, “Ciò che facciamo in vita riecheggia nell’eternità”.
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