Nel precedente articolo abbiamo visto emergere, tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, il mito della società italiana come buona e pura in contrasto con una classe politica ritenuta corrotta e incapace. È a questo livello che si inserisce la figura di Silvio Berlusconi. L’aspetto interessante è che il Cavaliere, che viene appunto dalla “società civile” e non fa parte dell’élite politica (“sono uno di voi”, amava ripetere), non cavalca l’odio che durante Tangentopoli si è sprigionato a livelli importanti e che sarà un’arma spesso utilizzata dai populisti successivi a Berlusconi, ma fornisce una visione ottimistica del carattere e delle capacità degli italiani, e propone un futuro migliore, addirittura un “nuovo miracolo economico”.
È evidente che questi argomenti, uniti alla potenza della sua macchina organizzativa e alla capacità di riempire il vuoto politico lasciato soprattutto dalla Dc e dal Psi (l’elettorato moderato e riformista), non potevano non raccogliere un importante consenso, che inizialmente fu molto sottovalutato dai suoi avversari, Pds su tutti, che lo trattavano con sufficienza, quando non con disprezzo, certi che la loro “superiorità morale” gli avrebbe garantito la tanto agognata salita al potere, preclusa fin dal 1948.
Venne sottovalutata anche la capacità di Berlusconi di muoversi nel contesto della nuova legge elettorale, il “Mattarellum”, approvata dopo l’esito del referendum del 1993 che aveva abolito il proporzionale: dopo Tangentopoli, il colpo definitivo al sistema dei partiti. In particolare, Berlusconi aveva compreso che questo nuovo sistema elettorale avrebbe portato ad un bipolarismo che, differentemente da quello inglese o americano, sarebbe diventato di coalizioni, più che di partiti. In effetti, la coalizione di centrodestra che oggi governa il Paese è stata una iniziale intuizione del Cavaliere, che si è realizzata con molta fatica, e non senza problemi anche attuali, durante il corso degli anni.
A tutto questo si aggiunga l’insistenza di Berlusconi sull’anticomunismo, sicuramente un tema caro ad una buona fetta dell’elettorato moderato e cattolico (oltre che della destra antifascista): egli, in vista delle elezioni del 1994, riuscì a convincere gli elettori che sotto la vernice pidiessina si nascondeva ancora la vecchia mentalità comunista, illiberale e statalista. Il Cavaliere seppe incarnare, meglio di chiunque altro, quell’esigenza di cambiamento così diffusa dopo Tangentopoli.
Berlusconi lo ha ripetuto anche in una delle sue ultime apparizioni, il videomessaggio registrato dall’Ospedale San Raffaele di Milano: la sua “discesa in campo” ha avuto come motivo principale proprio la volontà di non permettere a forze illiberali di poter governare il Paese. Fu probabilmente su questo aspetto che fin dalla vittoria del 1994 si incrinarono i rapporti con la magistratura. Una magistratura che il Cavaliere aveva appoggiato durante Mani Pulite, e aveva addirittura corteggiato con l’offerta ad Antonio Di Pietro del ruolo di ministro della Giustizia nel suo primo governo, ma che aveva puntato le sue carte sul Pds come punto di riferimento dello schieramento progressista.
Il Pds in effetti era stato toccato solo marginalmente dalle inchieste sulla corruzione in politica. Eppure, autorevoli storici oggi sostengono che ci fossero dei legami opachi soprattutto con il mondo delle coop rosse, sui quali investigò soprattutto un pm veneziano, Carlo Nordio, attuale ministro della Giustizia, che spesso si è attirato le critiche della magistratura per le sue posizioni garantiste e per la sua volontà di riformare l’apparato giudiziario.
Tornando a Berlusconi e al 1994, non poteva tardare molto una qualche azione giudiziaria, che infatti arrivò nel novembre con un tempismo quantomeno sospetto (mentre il Cavaliere presenziava un vertice Onu a Napoli sulla criminalità organizzata). Questo fatto, unito alla volontà della Lega Nord di liberarsi dallo scomodo alleato, pose fine alla prima brevissima esperienza di governo del Cavaliere, sostituito appunto da un altro governo tecnico sostenuto dal presidente Scalfaro, quello di Lamberto Dini, che traghettò il Paese fino alle elezioni del 1996.
Quando Berlusconi tornò al governo con una più o meno stabile maggioranza, nel 2001, le problematiche che gli si presentarono davanti furono notevoli. Innanzitutto continuarono e anzi si acuirono i problemi giudiziari. L’ostilità della magistratura si accompagnò a quella delle élite politiche e pubbliche (giornalisti, insegnanti, intellettuali, burocrati) che si concepivano come la parte migliore del Paese e per anni hanno interpretato il berlusconismo come il male assoluto da abbattere perché espressione dei peggiori vizi della società, giocando sullo scontro personale più che sui contenuti, e alimentando quella mentalità da guerra fredda della contrapposizione tra due blocchi: il berlusconismo contro l’antiberlusconismo. Non a caso, gli epigoni di questo atteggiamento di superiorità moralista li abbiamo ritrovati negli articoli del Fatto Quotidiano successivi alla morte di Berlusconi, e nella mancata presenza del presidente del Movimento 5 Stelle, Conte, ai funerali dell’ex presidente del Consiglio.
D’altra parte, possiamo chiederci se il Cavaliere abbia saputo attuare quella “rivoluzione liberale” da lui promessa e da tanti suoi elettori ardentemente agognata. Berlusconi riteneva che ci fosse bisogno di governare l’Italia come un’azienda, con una immediatezza nelle decisioni che però il governo del Paese non poteva consentire. In particolare, Berlusconi ha dimostrato una certa fatica a maneggiare le dinamiche di mediazione parlamentare tra le forze politiche: dinamiche che certamente sono estranee al mondo aziendale ma diventano essenziali in una democrazia parlamentare come quella italiana.
È da tenere presente che storicamente le istituzioni italiane sono state concepite come “deboli”, o meglio, bisognose del dialogo e del confronto tra le forze politiche per funzionare adeguatamente. Questo perché la Costituzione, come è noto, è stata realizzata a seguito dell’esperienza fascista e si voleva impedire il ritorno di una dittatura. Di fatto, per quasi cinquant’anni, le vere istituzioni italiane erano i partiti di massa (Dc, Pci e Psi su tutti), che contavano su milioni di iscritti e che appunto erano stati spazzati via da Tangentopoli.
Non è un caso che tutti i tentativi di riforme istituzionali nella seconda repubblica (dalla Bicamerale di D’Alema del 1998 alla riforma di Renzi del 2016, passando appunto per quella di Berlusconi del 2006) siano naufragati proprio per questa incapacità di trovare il dialogo, la mediazione e la giusta convergenza tra forze politiche diverse.
Questo discorso vale anche per la riforma della giustizia. In questo senso si tratta di prendere in esame il problema del rapporto tra i poteri dello Stato, a maggior ragione dopo Tangentopoli e gli eventi successivi che hanno chiaramente segnato un’invasione di campo del potere giudiziario su quello legislativo ed esecutivo. Berlusconi, tuttavia, non ha saputo affrontare organicamente la questione e ha proceduto soprattutto sul binario della difesa personale, lasciando il fianco scoperto alle accuse di prendere dei provvedimenti ad personam.
Berlusconi ha ritenuto che il forte consenso nei suoi confronti bastasse per garantire l’efficienza del proprio governo. Da questo punto di vista, non ha fatto adeguatamente i conti con la complessità nell’amministrazione della cosa pubblica. Egli proclamava la necessità di uno Stato più “leggero”, meno burocratico, con un fisco meno oppressivo: tutti argomenti che hanno suscitato un forte consenso ma erano di difficile realizzazione, soprattutto se si pensa che in Italia lo Stato per decenni ha sì ingessato la società, ma l’ha anche pagata e sostenuta. Interventi per attuare quella rivoluzione liberale avrebbero richiesto tempo e soprattutto riforme forse troppo dolorose per chi ricercava continuamente il consenso e la legittimazione popolare.
Infine, egli ha creato una struttura, Forza Italia, che coincideva con lui in tutto e per tutto, mostrando importanti difficoltà nel delineare il futuro di questo partito dopo la sua morte e anche nel rapporto con i suoi collaboratori più stretti che, in diversi periodi della sua esperienza politica, sembrava potessero in qualche modo prenderne il posto. Orsina nel suo saggio cita il mito di Crono, descritto da Esiodo, che mangia i propri figli per la paura di esserne spodestato.
Per concludere, Berlusconi ed il berlusconismo sono argomenti che hanno fatto molto discutere gli italiani, spesso velenosamente, così come Tangentopoli rappresenta in qualche modo una ferita nella storia italiana. Rileggere questi fatti sotto la lente di una prospettiva storica potrebbe rappresentare un contributo a non lasciare questi temi allo scontro tra opposte tifoserie, ma procedere verso una pacificazione della memoria di cui in Italia si sente il bisogno.
(2 – fine)
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