Nei giorni scorsi non ha avuto molto rilievo la notizia dell’arresto, giovedì 29 agosto a Buenos Aires, di un ex brigatista italiano. Dunque chi è Leonardo Bertulazzi e perché può essere importante la sua cattura?

Lo scorso anno Sergio Luzzatto, autorevole storico, ha dato alle stampe il libro in cui ha ricostruito la storia delle Brigate rosse genovesi, frutto di anni di lavoro su archivi e su tante altre tipologie di documentazione, compresa quella delle interviste personali (Dolore e furore, Einaudi, 2023). Nella lunga e minuziosa ricerca, finalista quest’anno del Premio Friuli Storia, si incontra il nome di Bertulazzi e si può scoprire, passo dopo passo, gli avvenimenti principali relativi soprattutto ad un periodo assai delicato della nostra storia, gli anni settanta.



Figlio di un maresciallo maggiore dell’esercito, cresciuto in una famiglia dalle solide tradizioni antifasciste, Bertulazzi si trasferì da Verona a Genova agli inizi degli anni 60. Conobbe dunque Genova da ragazzino, probabilmente con un certo senso di spaesamento, costretto ad adattarsi in un mondo che non era il suo. Tuttavia vi riuscì, se è vero che la prima testimonianza su Bertulazzi ci viene da un certo Guerrini, professore di storia e filosofia al Liceo classico “Mazzini” di Genova, che nel marzo del 1969 rimase negativamente impressionato da uno “spilungone” proveniente dal vicino Liceo scientifico “Fermi” che, spalle alla scuola, con un megafono arringava la folla di studenti esortandoli a fare sciopero. Siamo negli anni caldi della contestazione, e dopo questo iniziale tirocinio al liceo, Bertulazzi si iscrisse inizialmente a medicina, passando quasi subito alla facoltà di lettere. Ben presto, egli venne assunto come facchino da una ditta, ma soprattutto, divenne uno dei dirigenti di Lotta Continua a Genova.



In particolare, Bertulazzi si occupava del “servizio d’ordine”, ruolo delicato che prevedeva talvolta anche l’uso della violenza, e lo fece in un momento molto particolare in cui nell’organizzazione c’era un acceso dibattito che riguardava l’alternativa tra l’insurrezione di massa e la lotta armata. Per questo, nel 1972 venne spiccato contro di lui dal giudice Sossi un mandato di cattura, poi revocato. Prima di Bertulazzi, aveva fatto parte come dirigente del servizio d’ordine di Lotta Continua un certo Sergio Adamoli, medico chirurgo, poi diventato il padre nobile della nascente colonna genovese delle Brigate rosse. Fu Adamoli, incaricato del reclutamento, che nell’autunno del 1975 portò Bertulazzi e altri due suoi amici a presentare la propria “domanda di ammissione” alle Br. Si trattò di un incontro al locale “Sereno” di Boccadasse, con Moretti e Micaletto, i capi non genovesi che stavano cercando di far crescere quella colonna. I racconti di uno dei tre partecipanti, Demuro, amico di Bertulazzi, sembrano dipingere l’agire cospirativo di una manciata di persone.



Era stato da poco arrestato Curcio a Milano, e le Br avevano bisogno di “personale”. Bertulazzi venne arruolato come “irregolare”, nel senso che non entrò subito in clandestinità. La colonna genovese delle BR, pur inizialmente non numerosissima, diede però vita a dei primati, se così si può dire, relativi alla storia dell’organizzazione. Nel 1974 avvenne il primo rapimento a scopo politico, quello del già citato giudice Sossi. Nel 1976 ci fu il primo omicidio politico, quello del procuratore Francesco Coco, a seguito del quale fu perquisita anche la casa di Bertulazzi, senza conseguenze, ed egli comparve nell’elenco contenente 179 sospetti brigatisti redatto dalla Questura di Genova.

Nel gennaio del 1977 Bertulazzi partecipò al sequestro di Pietro Costa, che durò moltissimo, 81 giorni, e che si concluse con un successo da parte delle Br perché ottennero un riscatto di oltre un miliardo del vecchio conio. Il bottino servì a finanziare anche altre colonne brigatiste in giro per l’Italia, per l’acquisto di armi e covi. Molte fonti giornalistiche nei giorni scorsi hanno riportato che di quell’ammontare, circa 50 milioni andarono per l’acquisto del covo di Via Montalcini a Roma, dove presumibilmente venne tenuto prigioniero Aldo Moro nel 1978.

Nell’estate del 1977 Bertulazzi rimase gravemente ustionato mentre stava preparando degli ordigni. Ci fu una campagna stampa in sua difesa, vennero addirittura pubblicate le lettere dal carcere di “Leo” che si dipingeva come una vittima del potere borghese (da poco in Germania erano misteriosamente morti in carcere i capi della nota banda Baader-Meinhof). Successivamente tornò in libertà, ma più che altro per assistere alla crisi profonda delle Br in generale e della colonna genovese in particolare. Nel marzo 1980, infatti, ci fu l’irruzione da parte dei reparti speciali dei Carabinieri di Dalla Chiesa nel covo di Via Fracchia, dove vennero uccisi 3 militanti brigatisti tra cui il capo della colonna, Riccardo Dura. Venne inviata Barbara Balzerani nella città della lanterna per risollevare la situazione delle Br, ma invano, perché ci furono altri arresti (e alcuni si pentirono) e furono scoperti diversi covi. Fu proprio nel 1980 che Bertulazzi cominciò la sua latitanza in vari Paesi, fino ad approdare in Argentina.

Qui fu arrestato nel 2002 ma venne rilasciato e nel 2004 gli venne concesso lo status di rifugiato. Dopo vent’anni, il Paese ha deciso di ritirare questo status e dunque il Bertulazzi è stato nuovamente arrestato. La sua pena in Italia sarebbe addirittura andata in prescrizione, se non fosse che l’arresto del 2002 ha resettato le tempistiche. Egli, dunque, dovrebbe scontare 27 anni di carcere per i vari capi di accusa con i quali è già stati condannato. L’iter dell’estradizione, qualora avesse successo, potrebbe tuttavia non essere così breve.

Al di là delle giuste questioni penali e processuali, oltre che umane, sarebbe importante da un punto di vista storico se il Bertulazzi fosse interrogato in Italia e, collaborando, aiutasse la giustizia a ricostruire ancora meglio ciò che accadde in quegli anni così delicati.

Bertulazzi non è l’unico protagonista degli anni di piombo ancora ricercato fuori dall’Italia. Ci sono, ad esempio, Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono, i quali, secondo le inchieste, ebbero un ruolo di copertura nell’agguato di Via Fani. Insomma, come disse un ex esponente del Pci per i fatti di sangue relativi all’Emilia del secondo dopoguerra, “Chi sa, parli”, in modo tale che in Italia si possa fare sempre di più luce sugli avvenimenti relativi ad un periodo storico drammaticamente importante del nostro passato recente.

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