Come abbiamo visto, tra il novembre 1940 e il febbraio 1941 l’Italia perse repentinamente il suo rango di grande potenza, divenendo junior partner della formidabile macchina da guerra tedesca. La propaganda fascista non sapeva più come reagire alle continue sconfitte, al razionamento dei beni di prima necessità, al progressivo scontento che si registrava tra gli italiani per una guerra che sarebbe dovuta essere breve e invece diventava sempre più sanguinosa e angosciosa.
Si può dire che la Seconda guerra mondiale è una specie di autobiografia degli italiani, con atti di un eroismo epico da parte di alcuni, con l’imboscamento di tanti che si sottraevano al proprio dovere, e con sconfitte ricorrenti che umiliavano il prestigio della nazione e delle forze armate. Il regime fascista stava ormai bruciando le ultime riserve di credibilità.
In quel terribile marzo 1941 “L’un dopo l’altro i messi di sventura/ piovon come dal ciel”, come poetava Carducci. Tra il 9 e il 12 marzo falliva l’estrema controffensiva italiana in Grecia alla presenza dello stesso Mussolini. Giustamente il Duce aveva preteso una vittoria risolutiva, in quanto alcune divisioni tedesche erano già entrate in Bulgaria e si preparavano ad attaccare la Grecia. Era prevedibile che l’esercito greco, che già aveva subito perdite terrificanti, avrebbe ceduto di schianto e che gli allori della vittoria sarebbero andati alla Wehrmacht e non all’esercito italiano.
Il 21 marzo cadeva anche Giarabub, espugnata dagli australiani dopo una furibonda resistenza della guarnigione italo-libica, guidata dal colonnello Salvatore Castagna. Ferito e catturato nell’ultima giornata di combattimenti, Castagna si rifiutava di intimare la resa ai capisaldi rimasti per ottenere l’onore delle armi. Questa storia della resa con “l’onore delle armi” sarebbe stato un “escamotage” adottato dai britannici in diverse occasioni per abbreviare la resistenza italiana data l’urgenza di impiegare le poche truppe del Commonwealth disponibili su altri fronti. Non così per il colonnello Castagna, che aveva giurato di difendere Giarabub fino all’ultimo proiettile e che così descrisse la resa: “La bandiera che da dieci mesi sventolava sulla ridotta Marcucci venne abbassata e bruciata al cospetto del nemico, che concentrò le sue ultime raffiche sui soldati che avevano l’incarico di compiere questo estremo gesto. Da ogni petto uscì un grido: viva l’Italia!”.
Ugualmente tenace la resistenza a Cheren che cessò tra il 28 e il 29 marzo dopo una nuova offensiva iniziata il 15 marzo. Le perdite degli scozzesi dei “Cameron highlanders” e degli indiani furono terribili, così come quelle degli italiani. Il problema è che il prode generale Carnimeo ricevette pochissimi rinforzi e si può ben dire che combatterono fino all’ultimo uomo. La morte del generale Lorenzini il 18 marzo provocò il crollo del morale delle truppe coloniali, che lo veneravano come un eroe mitico e invulnerabile. Poi tutto crollò e Massaua cadde l’8 aprile. Si concludeva così il dominio italiano in Eritrea, iniziato nel 1869, poco dopo l’unità d’Italia.
Unica nota positiva l’attacco dei nostri incursori della Marina nella baia di Suda a Creta. Oggi non sono in molti a sapere o ricordare cosa fosse un barchino esplosivo. Tullio Tedeschi, Emilio Barbieri, Alessio de Vito, Lino Beccati, Angelo Cabrini e il loro comandante Luigi Faggioni giunsero all’ingresso della baia nelle prime ore del 26 marzo pilotando dei motoscafi dotati di motori da aeroplano. Remando riuscirono a superare in silenzio le ostruzioni poi, alle prime luci dell’alba, diedero tutto gas e si lanciarono, affiancati, contro le navi inglesi ormeggiate. Giunti a 80 metri di distanza, bloccarono il timone dell’imbarcazione e si lanciarono in mare salendo sul salvagente. I barchini speronarono l’incrociatore pesante “York” e una petroliera provocando l’esplosione di una corona di cariche esplosive situate a prua dove si trovava una carica di 300 kg di tritolo che sprofondò in mare e venne azionata da una spoletta batimetrica. L’esplosione fu devastante e le due navi andarono a fondo.
Pochi giorni dopo, il 28 marzo, accadeva la più pesante sconfitta navale della storia italiana. Una squadra costituita dalla corazzata “Vittorio Veneto”, 6 incrociatori pesanti e 13 cacciatorpediniere era stata inviata a colpire i convogli inglesi che trasportavano truppe in Grecia. Gli inglesi, tuttavia, sapevano bene di questa offensiva con la decrittazione dei codici tedeschi. Fu così che gli italiani si ritrovarono ad avere a che fare con tre corazzate e una portaerei. Gli aerosiluranti inglesi danneggiarono gravemente la “Vittorio Veneto” e immobilizzarono l’incrociatore “Pola”. A quel punto l’ammiraglio Iachino, pur essendo stato informato dell’esistenza della squadra navale inglese, presumendo, probabilmente, che la battaglia fosse conclusa col cadere della notte, inviò un’intera squadra navale a trainare l’incrociatore “Pola”. In quelle ore si concentrarono le conseguenze di decenni di pigrizia mentale. Per anni gli italiani non si erano esercitati al combattimento navale notturno; non vi era mai stato uno sviluppo del radar, che pure era stato fabbricato fin dal 1936, e persino lo schieramento della squadra era errato, con i cacciatorpediniere in coda e non in avanscoperta. Così le nostre navi caddero nell’imboscata e i grossi calibri da 381 delle corazzate britanniche fecero a pezzi gli incrociatori pesanti “Zara” e “Fiume” oltre ai cacciatorpediniere “Carducci “ e Alfieri”. Anche il “Pola”, impotente spettatore della strage, venne distrutto dagli inglesi. Morirono 2.300 uomini e la marina italiana subì un colpo terribile.
Di fronte a questo disastro vi sono episodi di valore così estremo da apparire quasi assurdo. Per quanto si stenti a crederlo, molti comandanti di vascelli italiani durante la guerra scelsero di affondare con la propria nave con una frequenza che si riscontra solo nella marina imperiale nipponica. La notte del 28 marzo, mentre le navi italiane venivano trasformate in bracieri, alcuni ufficiali sceglievano di scomparire con la propria nave. Era questa la sorte dell’ammiraglio di divisione Carlo Cattaneo e dei capitani di vascello Luigi Corsi (incrociatore “Zara”), Giorgio Giorgis (incrociatore “Fiume”) e Salvatore Toscano (cacciatorpediniere “Alfieri”). Corsi disse a chi lo invitava a salvarsi: “Non mi salvo; la mia zattera è per i marinai!”; Giorgis fu visto dai suoi uomini ritto sulla prora che spariva nel Mediterraneo; Toscano rifiutò l’invito dei suoi uomini e rimase in piedi sulla plancia che si inabissava.
Questi gli uomini che scelsero di non sopravvivere alla nave loro affidata. Altrove, invece, a Roma e negli alti comandi, di superiore in superiore fino all’inquilino di Palazzo Venezia lo scarico della responsabilità era uno sport costantemente praticato. La responsabilità degli italiani stava nello scegliere a chi somigliare. Oggi come allora.
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