Pochi eventi nella storia ebbero conseguenze tanto gravi ed estese quanto i due colpi di pistola esplosi a Sarajevo il 28 giugno 1914 da Gavrilo Princip, studente ultranazionalista serbo la cui mano era stata armata da ambienti che godevano di sostegni solidi e ramificati all’interno del governo e delle forze armate del regno di Serbia. La morte dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria-Ungheria, e della consorte Sofia segna un punto senza ritorno nella storia europea, al punto che c’è chi, a ragione, ha parlato di “apocalisse della modernità” per descrivere gli anni sanguinosi che stavano per iniziare. Dalla Grande guerra il vecchio continente non si sarebbe mai più veramente ripreso e il secondo conflitto mondiale avrebbe rappresentato per tanti aspetti una continuazione del primo: al concetto di finis Austriae si affianca perciò quello di finis Europae.
Il nostro Paese, contrario all’entrata in guerra sia nel suo corpo sociale sia nelle sue rappresentanze parlamentari, dopo un anno di neutralità fu trascinato nel conflitto da una minoranza interventista appoggiata dal governo con modalità che lasciarono esterrefatti gli ambasciatori italiani a Vienna e a Berlino. Nel maggio 1915 l’ambasciatore italiano a Vienna, il duca Giuseppe Avarna di Gualtieri, pieno di sconforto, scriveva al suo collega a Berlino Riccardo Bollati a proposito del comportamento del ministro degli Esteri italiano Sidney Sonnino: “Nella mia lunga carriera non ho mai visto condurre la nostra politica estera in modo così bestiale e così poco leale”.
Diffusi nella borghesia liberale nazionalista, i sentimenti interventisti erano però non meno condivisi da chi, a sinistra, teorizzava l’interventismo democratico; per costoro la guerra avrebbe portato finalmente allo stravolgimento del vecchio ordine politico e sociale, alla rivoluzione proletaria e alla nascita dell’uomo nuovo. La storia a volte sa essere crudele, sarcastica o anche paradossale, come in questo caso: la guerra portò effettivamente, a pochi anni dalla vittoria, un terremoto politico e istituzionale in Italia, ma con l’avvento al potere del fascismo.
Nel 1922, l’anno che avrebbe visto la marcia su Roma, all’inizio del mese di aprile moriva in esilio in una remota isola dell’Atlantico, Madera, l’ultimo imperatore d’Austria e re d’Ungheria, Carlo d’Asburgo, che nel 1916 aveva raccolto la difficile eredità di Francesco Giuseppe proprio in seguito all’assassinio dello zio Francesco Ferdinando. Nato nel 1887, il giovane imperatore non aveva ancora trent’anni quando prendeva la guida dell’antica monarchia asburgica, erede del Sacro Romano Impero, in un momento drammatico quanto altri mai: si era già messo in luce come un comandante militare avveduto, attento ad alleviare le pene dei suoi soldati e avverso a quei generali che ne sacrificavano la vita in assalti avventati e improduttivi. Erano noti a tutti la sua fede, la sua bontà d’animo e l’affetto profondo che lo legava alla moglie, Zita di Borbone-Parma, con la quale si era sposato nel 1911, in tempi felici che sembravano ormai trascorsi da un secolo.
Al momento di salire al trono, Carlo I d’Austria e IV d’Ungheria aveva idee precise che dovevano segnare la rotta dei suoi due brevi e travagliati anni di regno. L’idea che la monarchia asburgica fosse un corpo fatiscente e sclerotizzato, con l’inizio del Novecento fatalmente condannato a scomparire, è un pregiudizio di cui la storiografia più recente ha fatto giustizia. Come ha scritto Christopher Clark (nel suo noto volume I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande guerra), lungi dal presentarsi come un apparato repressivo, la duplice monarchia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo aveva mostrato di saper produrre un sistema di garanzie a favore delle sue molte nazionalità all’interno di un quadro condiviso; essa era “una entità viva e vitale che suscitava un forte senso di appartenenza, un mediatore fra interessi sociali, economici e culturali di varia natura. […] la maggior parte degli abitanti dell’Impero associava l’immagine dello Stato asburgico ai vantaggi di un governo ben regolato: istruzione pubblica, attività assistenziali, servizi, legalità e mantenimento di sofisticate infrastrutture. Queste caratteristiche del governo asburgico occupavano un posto fondamentale nella memoria che venne conservata di quei tempi dopo l’estinzione della monarchia”. Con tutto ciò, gravi problemi interni non mancavano e ora la loro soluzione era resa quanto mai ardua dal conflitto in corso, una guerra totale che non aveva precedenti e prosciugava le risorse umane e materiali dei popoli europei.
Due furono gli obiettivi che il nuovo sovrano cercò con tutte le sue forze di conseguire: la fine della guerra attraverso il raggiungimento di una pace negoziata e una riforma interna in senso compiutamente federale dell’antica monarchia asburgica. Nel perseguirli Carlo d’Asburgo si spese senza risparmio, con una tenacia e una determinazione che fanno apparire niente più che una calunnia l’odioso cliché del sovrano impreparato e debole: a differenza dell’imperatore di Germania Guglielmo II, nel corso della guerra in pratica costretto a subire i diktat dei suoi stessi alti comandi militari, l’imperatore d’Austria dimostrò di non fermarsi davanti a nulla e a nessuno. Si può ben dire che sia stato l’unico capo di Stato di quegli anni ad accogliere con animo sincero l’esortazione del papa a porre fine all’inutile strage. Alla luce di quanto sarebbe accaduto di lì a poco, acquistano una sfumatura profetica le parole che nel settembre del 1917 l’imperatore Carlo scriveva a Benedetto XV – in risposta alla Lettera ai capi dei popoli belligeranti del papa, dell’agosto precedente – riaffermando la sua volontà di raggiungere una pace equa, duratura e onorevole; una pace che, soprattutto, potesse liberare i popoli dall’astio e dal desiderio di vendetta e mettere le generazioni future al sicuro da nuove guerre. Purtroppo, nessuno si rivelò disposto a dare all’Europa quella pace che avrebbe potuto salvarla da una nuova tragedia solo vent’anni dopo.
La vecchia Austria fu cancellata dalla carta geografica, e anni più tardi perfino Winston Churchill riconobbe che da parte delle forze dell’Intesa si era trattato di una scelta suicida. La pace come fu voluta dai vincitori della Grande guerra condusse l’Europa nel baratro del secondo conflitto mondiale. L’imperatore Carlo, senza avere mai abdicato, dopo un breve esilio in Svizzera e due sfortunati tentativi di restaurare la monarchia legittima almeno in Ungheria, finì i suoi giorni, giovanissimo, in un luogo remoto. La Chiesa l’ha beatificato nel 2004 come modello di capo di Stato cristiano, oltre che come padre e marito esemplare.
Nel febbraio 1919, poco prima di lasciare per sempre l’Austria e abbandonare come un proscritto la terra da secoli legata alla sua dinastia, scriveva al papa: “Nelle prove che la divina provvidenza mi ha inviato, ho conservato la consapevolezza di aver sempre fatto il mio dovere e di non aver mai cercato in ogni cosa altro che il bene dei miei sudditi, insieme alla maggior gloria di Dio e al trionfo della nostra santa madre Chiesa. La mia attuale situazione è estremamente difficile, ma non perdo coraggio e ho soprattutto fiducia che il Sacro Cuore di Gesù non abbandonerà questo Paese che a Lui è consacrato. Questo è il pensiero che rafforza me e l’imperatrice”.
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