A conclusione della 50esima Settimana sociale dei cattolici italiani, il 7 luglio a Trieste Papa Francesco ha affermato che “la storia delle ‘Settimane’ si intreccia con la storia dell’Italia”, e questo “dice di una Chiesa sensibile alle trasformazioni della società e protesa a contribuire al bene comune”. A tale proposito non sembra inutile rileggere momenti e occasioni del passato in cui la Chiesa italiana ha dato prova di tale sensibilità, contribuendo in vari modi al bene comune, in risposta alle nuove povertà, ai bisogni emergenti come quello dell’educazione popolare o suscitati dalle grandi migrazioni oltreoceano.



Il volume I cattolici che hanno fatto l’Italia. Religiosi e cattolici piemontesi di fronte all’Unità d’Italia (Lindau, 2011), intende affrontare l’apporto che i cattolici – laici e religiosi – offrirono alla creazione di un’Italia unita socialmente e culturalmente, prendendo come punto di osservazione il Piemonte negli anni del Risorgimento.



Lucetta Scaraffia, curatrice del volume contenente cinque contributi, non si nasconde le tensioni e gli episodi drammatici di quei “tristissimi tempi”, che si verificarono in particolare a Roma, dopo la breccia di Porta Pia: le espropriazioni di moltissimi importanti edifici (il Quirinale, Montecitorio, ecc.), di una cinquantina di conventi (tra cui quello carmelitano di Regina coeli che diventerà carcere), la laicizzazione degli istituti di assistenza e la sostituzione con insegnanti laici dei religiosi nei vari ordini di scuole compresa l’università e – novità allora scioccante – la costruzione nella città del papa di vari templi protestanti.



Eppure, nonostante le drastiche leggi del 1866 e del 1873 tendenti alla soppressione delle congregazioni religiose e all’incameramento dei relativi beni, il mondo monastico e conventuale italiano sopravvisse, purificandosi e modernizzandosi. Fu quasi una eterogenesi dei fini che portò la Chiesa italiana a riformarsi, basti pensare all’aumentata importanza dell’istituto parrocchiale e della figura del parroco, per non parlare delle iniziative avviate da laici, come l’Opera dei Congressi, volte a rispondere alle esigenze dei nuovi tempi: un nome su tutti è quello dell’avvocato bresciano Giuseppe Tovini.

Fra le novità positive, un posto particolare spetta alla creazione di nuove congregazioni dedite a varie forme di assistenza e all’insegnamento: sono ben 185 i nuovi istituti fondati nel corso dell’Ottocento, moltissimi dei quali femminili. Qui, tra l’altro, le religiose trovavano un’inaspettata possibilità di emancipazione, molto maggiore rispetto alle donne laiche loro contemporanee, e di affermazione delle capacità individuali, dovendo viaggiare, amministrare le loro case, dirigere ospedali, scuole, orfanotrofi, prepararsi con studi professionali; le suore Marcelline di Milano sono state le prime a frequentare l’università. Fra le fondatrici-imprenditrici spicca senz’altro il nome di Francesca Cabrini.

Gli altri contributi del volume documentano da vari punti di vista la tesi di fondo.

Franco M. Azzalli perviene alla conclusione che nel Piemonte del XIX secolo non esisteva opposizione tra patriottismo, tensione all’unità della nazione e fede cristiana. Egli presenta una carrellata di personaggi, per lo più legati alle posizioni dei “cattolici intransigenti”, che si trovarono ad operare in modo significativo in campo sociale. Si parte dai marchesi di Barolo, coniugi che “adottarono” i poveri di Torino e la cui casa divenne una fucina di opere caritative. Si parla poi di un sacerdote, Giuseppe Cottolengo che sempre negli anni della Restaurazione fondò un’opera per l’assistenza ai malati destinata ad uno straordinario sviluppo e diede vita a due congregazioni, una femminile e una maschile, per sopperire ai bisogni della suddetta opera. Intanto a Torino emergeva la figura di un altro sacerdote notevole, Giuseppe Cafasso, chiamato “il prete della forca” in quanto accompagnava al momento dell’esecuzione i condannati a morte.

Esemplari patrioti cattolici furono Leonardo Murialdo e Francesco Faà di Bruno. Il primo nel 1845 scriveva: “Per noi Italiani l’amore alla Patria si fonda e si identifica con l’amore per la Chiesa”. Anticipando la prima enciclica sulla dottrina sociale della Chiesa, la Rerum Novarum, nel 1871 fondò l’Unione degli operai cattolici, ossia la prima associazione cattolica operaia italiana, e pochi anni dopo il periodico “Unione Operaie Cattoliche”. Faà di Bruno, dopo la partecipazione alla prima guerra d’indipendenza e una volta conseguita la laurea in matematica e astronomia alla Sorbona, decise di dedicare la sua vita all’impegno sociale: fondò innumerevoli opere volte al soccorso alla popolazione più povera, specialmente donne, lavoratrici, anziane o disoccupate.

Oddone Camerana dedica il suo contributo a “Le mie prigioni”, pubblicate nel 1832. Camerana mette in luce come la pena carceraria sia stata per Silvio Pellico la palestra della sua conversione, favorita anche dal clima spirituale che si respirava a Torino in quegli anni, contraddistinto da solidarietà, altruismo, concretezza, predisposizione al soccorso. Pellico darà la sua collaborazione all’attività sociale dei coniugi Barolo, ospite nel loro palazzo fino alla morte avvenuta nel 1854.

Al rapporto tra Silvio Pellico e la marchesa Giulia di Barolo è dedicato lo studio di Simona Trombetta, significativamente intitolato “Una cooperazione per il bene”. La figura di Giulia di Barolo è stata oggetto in tempi recenti di una vera e propria revisione, che ha permesso un approfondimento e una lettura più equilibrata della sua vita, del suo pensiero e delle sue opere, superando così il pregiudizio laico verso la “reazionaria e gesuitizzante”, “vandeana e cattolicissima” marchesa. Dagli anni 20 Giulia si era fatta promotrice di una straordinaria serie di iniziative benefiche e assistenziali, la principale delle quali riguardava la riorganizzazione del carcere femminile delle Forzate – compito affidatole dal governo torinese nel 1821 – che in pochi anni aveva trasformato in un istituto di pena modello, introducendovi le suore e stabilendo un regolamento interamente discusso con le detenute.

Quando nel 1834 il Pellico approdò come bibliotecario/segretario a palazzo, fu chiaro che l’impegno coi libri sarebbe stato il minimo dei suoi  compiti: tra l’altro, insegnava francese alle suore che si preparavano agli esami magistrali, ispezionava la “sala d’asilo” che era stata aperta in casa Barolo per i figli dei poveri, visitava gli istituti aperti in quegli anni dai nobili coniugi a favore dei più disagiati, in particolare le donne. Negli anni successivi, cambiato il vento nel Regno di Sardegna, Giulia di Barolo divenne oggetto di molte critiche, perfino di calunnie; le perplessità sui suoi metodi e scopi sono state trasmesse alle generazioni successive e ne hanno fortemente influenzato il giudizio storico.

Il corposo studio di Grazia Loparco è dedicato alla nascita delle figlie di Maria Ausiliatrice e allo sviluppo dell’istituto nel primo cinquantennio dello Stato unitario. Sorte nel 1872 per volontà di Giovanni Bosco e di Domenica Mazzarello, si proponevano in modo speciale l’educazione delle ragazze attraverso la fondazione di scuole, orfanotrofi, asili, ma anche laboratori dove si potesse insegnare loro un mestiere: intercettavano così le esigenze di famiglie modeste o esposte alla marginalità e davano un prezioso contributo al miglioramento della condizione femminile.

La struttura dell’istituto presentava vari aspetti di novità e richiedeva una flessibilità all’operare concreto delle suore, le quali acquisivano una mentalità più aperta grazie alla preparazione professionale loro richiesta, ai trasferimenti più o meno lunghi da una regione all’altra, ai viaggi. Tale mobilità, dovuta a intelligenti strategie istituzionali e alle esigenze delle opere, era cosa rara tra le donne del tempo, e fece sì che le suore si sentissero “italiane” prima di molti altri, imparando a conoscere la geografia e la gente, le mentalità e i costumi, e fossero veicolo di queste conoscenze.

Grazie alla capillarità della loro diffusione in tutto il territorio del Regno e alla modernità della loro presenza non solo in campo educativo ma anche in occasione di emergenze e di calamità, le figlie di Maria Ausiliatrice costituirono di fatto, al di là delle loro intenzioni, una potente occasione per l’emancipazione femminile in Italia.

In conclusione, tutte queste iniziative hanno avuto il merito di anticipare la conquista dei diritti fondamentali della donna e dell’uomo e la consapevolezza della dignità di ogni persona.

D’altra parte, volendo tentare un bilancio del conflitto che ha a lungo opposto Stato e Chiesa, grazie a questi saggi si può affermare che, nonostante indubbie violenze e prevaricazioni nei confronti dei cattolici, la Chiesa non è stata indebolita da tale battaglia, anzi ne è uscita più forte, purificata e anche fortemente modernizzata. “Non ultima gloria dell’Italia unita apparirà quella di aver liberato – malgré elle – energie trasformatrici di grande portata”, dirà Giorgio Rumi.

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