Come abbiamo visto nella puntata precedente, nel febbraio del 1941 l’Italia aveva già praticamente perso la guerra secondo gli obiettivi politici di Mussolini. Il tentativo di “guerra parallela” a fianco della Germania si era risolto in una serie di disastri militari ed era stato necessario chiedere alla Germania proprio quell’aiuto che si voleva evitare, avendo come conseguenza una totale subordinazione ad essa.



Per tutto il mese di febbraio si era combattuto sulle montagne dell’Albania con i greci sempre all’offensiva, ma la resistenza italiana si era sempre più irrobustita a prezzo di gravissimi sacrifici delle nostre fanterie. Era il prezzo pagato per la disorganizzazione, l’improvvisazione, il dilettantismo, la noncuranza di cui il principale responsabile era proprio il Duce e, a scalare, gran parte dei gerarchi e dei generali italiani.



In Africa settentrionale le cose andavano ancora peggio. Dopo le sconfitte di Sidi Barrani in dicembre e la caduta di Bardia e Tobruk in gennaio gli inglesi avevano saldato il conto alla X armata italiana annientandola a Beda Fomm: altri 20mila prigionieri. A quel punto l’avanzata britannica si era esaurita ad Agedabia e i primi reparti tedeschi stavano arrivando al fronte. Non solo: le scarse forze inglesi furono disperse in altri teatri per volere di Churchill, in Grecia e in Etiopia.

Proprio contro l’impero italiano si era scatenata una doppia offensiva britannica dal Sudan verso l’Eritrea e dal Kenya verso la Somalia. La superiorità numerica italiana (340mila uomini contro 250mila) era annullata dalla dispersione delle nostre forze, costrette a presidiare tutto il territorio dalla guerriglia etiopica che non era mai stata debellata. Il generale Alan Cunningham invase la Somalia ed ebbe ragione delle forze italiane in breve tempo. Molto più laboriosa l’avanzata delle forze del generale William Platt dal Sudan. Dopo una prima vittoria ad Agordat, dove la cavalleria coloniale italiana, comandata dai tenenti Amedeo Guillet e Renato Togni, attaccò i carri armati britannici e compì prodigi di valore, gli inglesi marciarono su Asmara. Tra loro e l’obbiettivo il baluardo naturale di Cheren.



Fu qui che gli italiani decisero di resistere ad oltranza. O meglio, la decisione fu di due generali particolarmente intraprendenti e tignosi: Nicolangelo Carnimeo, laureato in legge e scienze politiche, e Orlando Lorenzini, figura mitica del colonialismo italiano, ammirato dagli stessi abissini per il suo coraggio. Cheren costituiva come una grande fortificazione naturale rivolta a ovest, un passaggio obbligato per chi attaccava l’Eritrea, ma la consueta imprevidenza italiana del ventennio fascista non provvide ad organizzare una difesa più munita. Solo all’ultimo momento venne fatto affluire un battaglione dell’11° reggimento Granatieri di Savoia che, insieme alla 2° divisione coloniale di Carnimeo riuscì a presidiare le cime delle montagne. Tra i difensori vi erano anche dei soldati che si inerpicavano sui picchi più alti tanto da far chiedere al generale inglese Frank Messervy “Sono forse capre quelle ombre che vedo saltellare lassù?”. E la risposta fu “Non proprio, signore, sono quei soldati che gli italiani chiamano alpini”. Era il battaglione “Uork Amba”, dalla breve e leggendaria storia.

Fatto sta che dal 3 al 27 febbraio le truppe indiane e scozzesi cercarono di sfondare e furono ogni volta contrattaccate con successo, subendo e infliggendo perdite pesantissime. Il vantaggio inglese in fatto di carri e artiglieria era annullato su quel terreno. Si combatteva come nella prima guerra mondiale e, in un ambito come quello, il soldato italiano poteva ancora farsi valere.

Lasciamo il lettore in sospeso sull’esito della battaglia di cui si tratterà nella prossima puntata e andiamo a un altro episodio che è rimasto per decenni nella mistica italiana e fascista. La resistenza di 1.300 uomini della guarnigione dell’oasi di Giarabub al comando del colonnello Salvatore Castagna. Il lettore provi a cercare l’oasi sulla cartina: è in fondo al deserto libico a 300 chilometri dalla costa. La difesa era imperniata su una serie di capisaldi distanti anche 100 chilometri dall’oasi e che dovevano essere presidiati per far sì che i rifornimenti potessero arrivare. Con pochi mezzi il colonnello Castagna combatté una guerra di movimento contro gli autoblindi inglesi, sfruttando la combattività delle truppe libiche che si batterono con dedizione assoluta. Per quanto il colonialismo italiano abbia commesso crimini orrendi per i quali non vi è mai stata alcuna Norimberga italica, è altresì vero che i nostri ufficiali riuscivano a interagire con libici, somali, eritrei e abissini costruendo tra i migliori reparti coloniali della storia militare di ogni tempo.

La situazione di Giarabub peggiorò drasticamente con i disastri di dicembre e gennaio. In febbraio non arrivavano più nemmeno i messaggi radio da Agedabia. Così isolato Castagna scelse di resistere contro ogni speranza mentre la fame e la dissenteria indebolivano gli uomini oltre ogni limite. Gli asini furono macellati e si combatté per riconquistare un prosciutto di somaro, disprezzato dagli australiani. Gli assediati si cibavano di gallette con sabbia, acqua salmastra e puzzolente: questo il cibo di quegli uomini che non intendevano ammainare la bandiera. Il 25 febbraio i viveri erano finiti ma il 27 un aereo sganciava rifornimenti e la guarnigione poteva ancora resistere.

Nasceva allora la leggenda di questo caposaldo con la celebre canzone “La sagra di Giarabub” e un film successivo nel 1942. Il testo è conosciuto: “Colonnello, non voglio il pane dammi piombo pel mio moschetto, c’è la terra del mio sacchetto che per oggi mi basterà. Colonnello, non voglio l’acqua dammi il fuoco distruggitore, con il sangue di questo cuore la mia sete si spegnerà. Colonnello, non voglio il cambio qui nessuno ritorna indietro, non si cede neppure un metro se la morte non passerà! Colonnello, non voglio encomi sono morto per la mia terra, ma la fine dell’Inghilterra incomincia da Giarabub!”

A dire il vero mia madre (classe 1929) mi ha tramandato una versione che qui riproduco e che veniva cantata durante la guerra: “Colonnello non voglio il pane, voglio un piatto di tortellini, come li danno a Mussolini che la tessera non ce l’ha”. Con un equo paradosso della storia l’eroismo di Castagna e dei suoi uomini rimaneva intatto mentre la retorica veniva smantellata dall’ironia. La fine del fascismo cominciava anche da questa satira popolare, come vedremo nelle prossime puntate.

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