Nel 1665, a Roma, durante lavori all’interno del convento dei Domenicani di S. Maria sopra Minerva, fu rinvenuto un obelisco egizio, di piccole dimensioni, in ottimo stato di conservazione e coperto di geroglifici. Incuriosito dal ritrovamento, il dottissimo gesuita Athanasius Kircher, in quel momento fuori Roma, chiese a un allievo e collaboratore di fargli pervenire dei disegni con la descrizione esatta dell’obelisco e delle relative iscrizioni.
Poiché i lavori di dissotterramento andavano per le lunghe, Kircher ricevette dal suo collaboratore dei disegni che raffiguravano soltanto i tre lati visibili dell’obelisco, dal momento che il quarto lato era ancora interrato. Lo studioso gesuita, dopo aver osservato i disegni ricevuti, si mise a tracciare di suo pugno i geroglifici del lato ancora interrato, e inviò poi il disegno a Roma al suo discepolo. Ne emerse poi, con grande stupore di tutti, che i geroglifici disegnati da Kircher corrispondevano esattamente a quelli che ornavano il lato del monumento che nessuno aveva ancora visto.
L’obelisco in questione fa ancora bella mostra di sé nella piazza antistante la basilica di S. Maria sopra Minerva, innalzato sul dorso del simpatico elefantino del Bernini.
La storia esprime senz’altro il senso del meraviglioso tipico dell’età barocca, insieme però a quel culto per le antichità egiziane che, fin dall’epoca umanistica e rinascimentale, aveva preso a esercitare un’influenza notevole sugli uomini di cultura. Radicata era l’idea secondo la quale i sacerdoti egiziani, detentori di saperi arcani e di origine remota, li avessero racchiusi nei simboli di una scrittura segreta.
All’interno di questo orizzonte si mosse anche il sopra menzionato Athanasius Kircher (1602-1680), la cui interpretazione, tutta simbolica ed ermetica, non fece muovere in realtà neppure un passo avanti nella lettura effettiva dei geroglifici come scrittura; va però detto che la sua profonda conoscenza della lingua copta e la sua intuizione che essa rappresentava l’ultima fase della lingua dell’antico Egitto gli valgono, in ogni caso, un posto di riguardo nella storia dell’egittologia.
Bisogna attendere il 1822 perché si possa giungere a chiarire questo antico malinteso. Nel luglio 1799, durante la spedizione napoleonica in Egitto, ebbe luogo un casuale ritrovamento destinato a una fama straordinaria: nei pressi di una località nel delta del Nilo di nome Rashid (Rosetta), venne rinvenuta dai soldati francesi una lastra di basalto nero riportante un testo scritto in egiziano e in greco e in tre diversi caratteri, geroglifico, demotico e greco; riportava il testo di un decreto di Tolomeo V del 196 a.C. a favore dell’alto clero egizio, emesso e fatto redigere per iniziativa dei sacerdoti di Menfi. Trasportata al Cairo, la stele parve subito un oggetto di straordinario interesse, che poteva forse essere la chiave per la conoscenza della lingua dell’Egitto faraonico.
Ottenuta dagli inglesi come preda di guerra, la stele fu imbarcata alla volta dell’Inghilterra nel 1801 e dall’anno successivo trovo postò al British Museum insieme alle altre antichità egizie che erano state sottratte al corpo di spedizione francese.
Ad arrivare alla soluzione del mistero fu il “Decifratore”, Jean-François Champollion (1790-1832), che fin dalla giovinezza si dedicava allo studio delle lingue orientali, conosceva perfettamente il copto e si era posto l’interpretazione dei geroglifici come primo e massimo obiettivo. Egli per primo comprese il legame che univa il demotico al geroglifico, due forme della stessa lingua, riuscendo infine a superare l’antico pregiudizio secondo il quale i geroglifici sarebbero stati solo ed esclusivamente simboli privi di valore fonetico.
Da allora, e per la prima volta, si ebbe la possibilità di leggere e tradurre le iscrizioni e collocare i monumenti e i reperti archeologici all’interno di un quadro cronologico sempre più coerente. Cominciava il cammino dell’egittologia, che avrebbe condotto, cento anni dopo la decifrazione dei geroglifici, a una delle scoperte archeologiche più straordinarie di tutti i tempi.
“Per un attimo – che dovette essere sembrato un’eternità a quanti mi attorniavano – rimasi muto dallo stupore, e quando lord Carnavon, incapace di attendere oltre, mi chiese ansiosamente: ‘Riuscite a vedere qualcosa?’ fui solo capace di rispondere: ‘Sì, cose meravigliose’”. Il breve scambio di battute tra Howard Carter e lord Carnavon è diventato giustamente famoso ed esprime bene lo stupore davanti alla loro eccezionale scoperta: la tomba di Tutankhamon.
Quel giorno era il 26 novembre 1922 ed era stata aperta la prima fessura nella porta che dava sull’anticamera della tomba: “fu il giorno cruciale, il più bello della mia vita, tanto che non potrei sperare di viverne un altro simile”, ricorda Carter. “In tutta la storia degli scavi, non si era certo mai visto uno spettacolo stupefacente come quello che si rivelò ai nostri occhi alla luce della torcia. […] bisogna immaginare come apparvero a noi gli oggetti da quel piccolo foro praticato nel muro chiuso e sigillato, rischiarati dalla luce della torcia – la prima luce penetrata nell’oscurità di quella stanza dopo tremila anni – che si spostava da una parte all’altra, nel vano tentativo di individuare i tesori che stavano dinanzi a noi. L’effetto fu al tempo stesso elettrizzante e sconcertante. Prima di allora forse non avevamo mai immaginato esattamente che cosa ci aspettavamo di vedere, tuttavia mai ci saremmo sognati una cosa del genere”.
Si può facilmente immaginare quali cure e quanta preparazione richiesero le lunghe operazioni di apertura dei sacrari e dei sarcofagi che custodivano le spoglie mortali del faraone. Siamo già nel febbraio 1924 quando viene rimosso il coperchio del grande sarcofago di granito; bisogna attendere l’ottobre dell’anno seguente perché vengano scoperchiati i tre sarcofagi interni, l’ultimo dei quali d’oro massiccio, e sia vista finalmente la mummia del faraone, il cui volto era coperto dalla celebre maschera funeraria.
Nel frattempo, nell’aprile del 1923, era morto improvvisamente lord Carnavon, appassionato cultore di egittologia, promotore e finanziatore della campagna di scavi, da Howard Carter definito un caro amico e un collega, scomparso proprio nel momento del suo trionfo. Il procedere della campagna di scavo fu documentato da Harry Burton, il fotografo della sezione egizia del Metropolitan Museum of Art di New York, messo a disposizione di Carter: i suoi splendidi scatti – in questi giorni in mostra a Oxford insieme ad altri documenti d’archivio – sono una fonte di primo piano per meglio comprendere la grande impresa compiuta e i suoi protagonisti.
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