A cosa serve parlare del terrorismo del secolo scorso, visto che oggi, almeno in Europa, questo fenomeno appare in una condizione quantomeno di stasi? Sembra questa la domanda di partenza per approcciare il volume La diplomazia del terrore (Laterza, 2023) di Valentine Lomellini, professoressa associata di storia delle relazioni internazionali nell’Università di Padova.



La storica, in questo suo libro che raccoglie i frutti di un lavoro durato anni e svolto principalmente su fonti archivistiche italiane ed internazionali, analizza i principali attentati terroristici di matrice arabo-palestinese nel periodo che va dal 1967 al 1989, indagando su quale sia stata la reazione degli Stati europei (in particolare Italia, Francia, Regno Unito e Repubblica Federale Tedesca).



Un lavoro prezioso tanto più per il fatto che l’Europa sembra aver perso memoria di questi fatti e delle loro conseguenze: un oblio clamoroso, vista la gravità degli episodi accaduti, che oggi potrebbero essere ricordati solo da chi all’epoca aveva l’età giusta per seguire i mezzi di comunicazione; ma soprattutto una dimenticanza che l’Europa stessa sembra aver pagato cara con l’ondata di terrorismo islamista che l’ha colpita nel primo decennio del nuovo millennio.

Un terrorismo, quello afferente ad Al-Qaeda o all’Isis, fortemente caratterizzato dall’elemento religioso, profondamente diverso da quello arabo-palestinese dei decenni precedenti che invece si era distinto per la sua connotazione politico-sociale. E tuttavia, una domanda su un possibile collegamento, anche indiretto, tra le due ondate di terrorismo sembra rimanere aperta. In particolare, può il terrorismo essere utilizzato come strumento di diplomazia coercitiva (ecco il senso del titolo del volume)?



Per questo, è importante analizzare il bilancio degli obiettivi raggiunti da parte delle organizzazioni terroristiche e degli Stati coinvolti. Nel 1968 un aereo partito da Roma in direzione di Tel Aviv viene dirottato (strumento che verrà utilizzato numerose altre volte): è il primo episodio dell’internazionalizzazione del terrorismo arabo-palestinese, dovuta alle conseguenze della sconfitta araba nella Guerra dei Sei Giorni. Il terrorismo, dunque, cominciava ad essere inteso come strumento di pressione indirizzato tanto alla politica quanto all’opinione pubblica.

In seguito a questi eventi, si sviluppò un primo livello di cooperazione tra Paesi europei, che inizialmente non fu politico ma di intelligence. L’Italia, ad esempio, fu tra i fondatori del cosiddetto Club dei servizi segreti (o di Berna). Tuttavia siamo alla fine degli anni 60 e gli Stati europei erano maggiormente preoccupati del terrorismo interno, mentre l’analisi di quello arabo restava sullo sfondo. Ne è un esempio il celebre attentato di Monaco del 1972, quando un gruppo armato palestinese sequestrò e infine uccise 11 atleti israeliani partecipanti alle Olimpiadi. In questo caso, prima delle Olimpiadi, erano giunte informazioni ai servizi tedeschi circa un possibile attentato. Nell’elenco dei gruppi potenzialmente pericolosi, tuttavia, i palestinesi figuravano in fondo, preceduti dall’estrema sinistra, dagli afroamericani e dai nazionalisti.

Questa difficoltà nel comprendere il terrorismo arabo-palestinese era determinata anche da un altro fattore destinato a protrarsi nel tempo nelle analisi politiche e strategiche: i collegamenti tra i diversi gruppi terroristi e il Cremlino. Tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70 siamo ancora in piena Guerra fredda, e la lettura prevalente del fenomeno terroristico era che ci fosse una rete internazionale (che spaziava dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina alle Brigate rosse, dalla Raf all’Armata rossa giapponese) gestita da un “grande vecchio”, un unico quartier generale dal quale venivano mossi tutti i fili, con sede naturalmente a Mosca. Che l’Urss avesse interesse nell’indebolire l’Occidente è evidente, tuttavia non esistono prove concrete a sostegno di questa ipotesi, ma soprattutto tale lettura “bipolarista” rendeva più ardua la comprensione della specificità del terrorismo arabo-palestinese, appiattendo l’analisi dei gruppi terroristi, o comunque estremisti, che finivano per assomigliarsi un po’ tutti.

Questa lettura sarebbe durata fino alla metà degli anni 80, e non avrebbe perduto forza neanche con gli accordi di Helsinki della metà degli anni 70, che significavano una distensione nella Guerra fredda. Anzi, l’opinione prevalente ad esempio dei vari governi italiani era che l’Urss mostrasse una doppia faccia: quella ufficiale della distensione, e quella ufficiosa della sovversione, per cui sosteneva vari gruppi terroristi in giro per il mondo. Questo non significa che il terrorismo internazionale non fosse state-sponsored: ad oggi sono molti gli indizi che inducono a pensare che alcuni Paesi (Libia, Iran, Siria, solo per citarne alcuni) abbiamo sostenuto atti di questo tipo.

D’altra parte il volume indaga anche quali furono le reazioni dei Paesi europei di fronte al terrorismo, e dall’inizio degli anni 70 si affermava una linea strategica prevalente, soprattutto in Italia e in Francia: quella del dialogo. L’Italia riteneva di avere una posizione geopolitica importante e rischiosa, per cui non aveva nessun interesse nell’instabilità della regione (il Mediterraneo in particolare). Per questo, il nostro Paese fece un accordo prima con l’Olp di Arafat, che cercava di portare avanti una politica moderata, anche se non sempre riusciva a controllare i gruppi più estremisti della galassia palestinese, e poi con la Libia, la quale, con Gheddafi al potere dal 1969, veniva considerata uno degli Stati che maggiormente finanziavano e sostenevano il terrorismo internazionale. Il bivio di fronte al quale si trovava l’Italia era tutt’altro che semplice da affrontare: tutelare la sicurezza dei cittadini o quella più complessiva dello Stato? L’Italia puntò sulla seconda soluzione, nel tentativo di dialogare con gli elementi moderati per cercare di moderare i gruppi radicali.

In parte questo atteggiamento ha garantito dei risultati e soprattutto ha consentito, almeno fino agli attentati del 1986 a Berlino Ovest, che fosse raggiunto il principale obiettivo fissato dagli Stati europei all’indomani dell’emergere della Guerra fredda: nessun conflitto armato entro il suolo europeo. La cooperazione tra gli Stati europei, a livello politico e di intelligence, con diverse difficoltà è stata in qualche modo sviluppata. Tuttavia, nota l’autrice, le risposte fornite al terrorismo internazionale sono state per lo più individuali e dunque disarticolate. Ciascuno Stato, in definitiva, ragionava secondo la propria storia e i propri interessi (geo)politici ed economici.

D’altra parte, il terrorismo ha dimostrato anche notevoli capacità di creare crisi diplomatiche e militari a livello globale, ad esempio nel 1976 con il dirottamento di un Airbus di Air France decollato da Atene e diretto a Parigi che atterrò infine in Uganda. A Entebbe, mentre si stavano svolgendo le trattative tra i terroristi ed i Paesi coinvolti, Israele inviò dei militari che procedettero alla liberazione degli ostaggi (quasi tutti israeliani) ancora nelle mani dei terroristi. Il dibattito che seguì nelle sedi Onu, evidenziò una frattura tra i Paesi europei e occidentali, che intendevano condannare l’attentato, e i Paesi africani, che invece volevano stigmatizzare anche l’intervento di Israele.

Dalla metà degli anni 80 vi furono cambiamenti rilevanti: l’assetto bipolare del mondo stava cominciando a cambiare con la crisi dell’Urss, mentre il terrorismo internazionale andava rafforzandosi e la gravità degli episodi lo conferma, basti pensare agli attentati a Roma e Berlino Ovest (1985-86), ma soprattutto a quello di Lockerbie, cittadina della Scozia dove nel 1988 esplose in volo un Boeing causando 270 vittime in tutto. La Guerra fredda finiva mentre il terrorismo rimaneva e scarsi erano i tentativi e quindi i risultati della cooperazione internazionale. Per questo, è importante leggere e studiare un volume come questo anche in un periodo in cui non ci sentiamo particolarmente minacciati dal terrorismo internazionale, perché in fondo il senso di una ricostruzione storica è quello “di dare una storia a chi non ce l’ha. O forse, più semplicemente, non la conosce”.

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