Il 2 febbraio 1943 un aereo da ricognizione della Luftwaffe sorvola il Volga. Alle ore 14:46, il pilota trasmette un messaggio via radio: “A Stalingrado, nessun segno di combattimento”.
Il giorno prima, al comando di campo sovietico, Friedrich Paulus ha firmato la resa della Sesta Armata. Il 30 gennaio, in risposta alle ripetute richieste di autorizzazione alla capitolazione mosse dall’ufficiale tedesco, Hitler lo aveva promosso feldmaresciallo. Una promozione, ma anche un chiaro segnale: mai, nella storia della Germania, un feldmaresciallo si era arreso al nemico. Eppure, Paulus decide di ignorare le volontà del Führer.
Più del suo onore e di quello del “Reich millenario”, il comandante tedesco vuole tutelare la vita dei suoi uomini, isolati dal resto del mondo da più di due mesi dentro la kessel – termine traducibile in tedesco sia come “sacca” che come “calderone” –, costretti a combattere in una situazione disperata senza munizioni, cibo, medicinali.
Quando i cannoni tacciono sulla città che porta il nome del dittatore sovietico, dei 320mila soldati che componevano la Sesta Armata sono in 90mila quelli che si consegnano agli uomini del generale Čujkov. Tra di loro vi sono 2.500 ufficiali, 23 generali ed un Feldmaresciallo del Reich.
Termina così la battaglia di Stalingrado, carneficina simbolo del secondo conflitto mondiale. Ma per una parte degli uomini che vi hanno combattuto, le difficoltà sono appena iniziate.
Dopo la fine degli scontri, i soldati della Wehrmacht vengono raccolti e incolonnati dai combattenti dell’Armata Rossa, in preparazione del lungo viaggio che li aspetta. A volte in treno. Perlopiù a piedi. Prima verso i campi di raccolta e di smistamento. Poi, dopo le rituali pratiche di identificazione, verso i gulag, i famigerati campi di lavoro sovietici, disseminati lungo le profondità del continente eurasiatico.
Un percorso di cui molti non riusciranno a vedere la fine. I duri mesi di privazioni trascorsi all’interno della sacca hanno influito pesantemente sulle condizioni di salute di coloro che sono sopravvissuti alle atrocità del campo di battaglia. Il silenzio serpeggia lungo le interminabili colonne grigioverdi, interrotto soltanto dal rumore cadenzato di passi pesanti. Sui corpi gracili e segnati dall’inedia risaltano gli esantemi cutanei, simbolo del tifo.
Per gli anni successivi, i reduci di questa lunga marcia saranno destinati a ogni tipo di attività pesante. Estrazioni minerarie, deforestazioni, costruzione di strade e ferrovie nelle regioni più remote della Siberia. Ma anche dighe, ponti, industrie e canali. Le condizioni di lavoro sono dure. In media si lavora dodici, sedici ore al giorno. Al rientro al campo, zuppa di patate e pane raffermo. Ogni tanto, se si era fortunati, un boccone di pesce.
Solo un piccolo gruppo degli uomini della Sesta Armata non segue i propri compagni. I sovietici decidono di lasciarli lì, a Stalingrado, per lavorare alla ricostruzione della città che loro stessi avevano contribuito a radere al suolo, in una sorta di laicale contrappasso socialista. Lo stesso Molotov, plenipotenziario ministro degli Esteri moscovita, dichiara: “Non un soldato tedesco lascerà la Russia prima che Stalingrado sia stata completamente ricostruita”.
Con la fine della guerra, coloro che sono riusciti a resistere al freddo, alle fatiche e ai maltrattamenti del gulag iniziano a sognare il ritorno a casa. Ma il rimpatrio non sarà semplice. L’Unione Sovietica, martoriata dalla guerra, ha un disperato bisogno di questa forza-lavoro per ricostruire le sue capacità economiche ed infrastrutturali, soprattutto adesso che l’Occidente assieme a cui aveva sconfitto il “demonio fascista” appare sempre meno amico, e sempre più nemico. Ci vorranno dieci anni prima che tutti i sopravvissuti di Stalingrado riescano a lasciare il territorio russo.
Nel 1955, anche grazie all’impegno personale del cancelliere della Germania Ovest, Konrad Adenauer, gli ultimi uomini di Paulus tornano alle proprie case. Dei 90mila soldati della Sesta Armata che avevano deposto le armi nell’inverno del ’43, sono tornati indietro solo in 5mila. Un numero irrisorio.
Prigioniero assieme ad alcuni dei suoi commilitoni in un monastero di Suzdal, dopo l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944 il feldmaresciallo Paulus inizia ad ostentare apertamente la sua ostilità verso il regime nazista. Come molti dei suoi colleghi ufficiali, anche lui sogna una Germania libera dalla croce uncinata. Arriva addirittura a collaborare con le autorità di Mosca, contro le quali aveva combattuto fino a pochi mesi prima, nella speranza di poter, nel suo piccolo, aiutare il proprio paese.
Nel 1946 anche lui siederà a Norimberga, non come imputato, ma come testimone delle atrocità commesse dalle SS sul fronte orientale. Nonostante il suo formale alto grado, Paulus riuscirà a tornare nella sua Germania solo nel 1953, proprio come un caporale qualsiasi. Si spegnerà in solitudine a Dresda, nella sovietizzata Repubblica Democratica Tedesca, il 1° Febbraio del 1957.
A quattordici anni esatti da quel fatidico giorno del 1943.
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