Con il suo Utilissimo consulto sulla guerra contro i turchi del 1530, su cui ci siamo soffermati in un precedente intervento, Erasmo si inseriva in un coro di prese di posizione arricchito dal contributo di numerosi autori, attivi in contesti diversi e che muovevano da punti di osservazione variamente articolati. Con accenti depurati da ogni ribollente bellicismo puramente rivendicativo, egli non faceva che riproporre gli elementi tipici di un’esigenza di tutela dell’Occidente europeo che aveva cominciato a riprendere fiato a partire quanto meno dal primo affacciarsi del pericolo turco sulla scena della cristianità tardomedievale. La dilatazione che sembrava inarrestabile delle solide maglie di un potere paladino di una fede religiosa alternativa risvegliò il dibattito mai sopito sulla legittimità della guerra santa di matrice cristiana.



Ne venne innescato l’ennesimo revival delle propensioni all’uso della violenza come mezzo, magari soltanto estremo, di autoaffermazione degli Stati che si erano riconosciuti, fino agli inizi del Cinquecento, nella guida della Chiesa latina.

Si trattava di una prospettiva di giudizio culturale perfettamente congeniale a un teorico della pacificazione tra i prìncipi cristiani qual era Erasmo, su cui egli aveva avuto modo di discutere già in altri scritti anteriori e ancora sarebbe ritornato in elaborazioni di pareri collaterali rispetto alla Consultatio del 1530: se ne può ricavare ampia documentazione dai testi erasmiani riuniti nell’antologia Pace e guerra, a cura di I. F. Baldo (Salerno Editrice, 2004). Ed è significativo che toni molto vicini a quelli erasmiani si riscontrino in una serie di coeve dichiarazioni di sostegno sul tema del ricorso eticamente giustificabile alla forza di contrasto delle armi, quale poteva essere concepito in una congiuntura di emergenza attraversata da rischi sensibili di dissoluzione della cristianità, o quanto meno di un suo subalterno ripiegamento fallimentare, a fronte della marea dilagante dell’avanzata ottomana.



Nella cornice dello stato di crisi che aveva colpito la cristianità mediterranea agli inizi dell’età moderna, la voce di Erasmo non era certamente paragonabile a quella dell’inerme profeta di un pacifismo timoroso e rinunciatario, lontano o del tutto estraneo alla lista di priorità coltivate dalle centrali di governo che tenevano nelle loro mani il destino collettivo dei popoli nel quadrante europeo. Si può citare, per fornire un altro esempio, il contemporaneo dialogo di Juan Luis Vives De Europae dissidiis et bello Turcico (Bruges 1529), costruito su una critica serrata delle indecisioni da cui continuava a essere frenata, nonostante gli annunci di disgrazie da tante parti lanciati, la capacità di reazione delle potenze cristiane, paralizzate dalle inimicizie intestine e in pesante affanno nel compito di porre rimedio all’incalzare del pericolo musulmano.



La spinosa problematicità dell’impatto tra due mondi ostili, in aperta competizione per il controllo dello spazio geopolitico in cui entravano in frizione, era registrata con uguale disagio da Erasmo, che certamente ebbe conoscenza diretta del testo di Vives, così come di altri frutti della letteratura storico-erudita e, insieme, della più agile pubblicistica “militante”, dedicata alle novità in via di maturazione sul fronte turco e in rapporto all’intero, quanto mai complesso, coacervo politico-religioso di tutto l’Oriente extracristiano.

La constatazione della fisiologica debolezza della cintura di protezione che poteva innalzare una cristianità gravemente disunita al suo interno, profondamente restia a lasciarsi incanalare sotto la regia coordinatrice dell’antico (e ormai da molte parti contestato) primato papale, si piegava quasi senza eccezioni, nelle scritture della polemica antiturca, ad assumere toni decisamente spigolosi. Il fossato dell’estraneità ostacolava in partenza ogni ponte di contatto gettato tra isole di civiltà di fatto impermeabili l’una all’altra, e in questa situazione di blocco non rimanevano se non esigui spiragli per la ricerca di possibili compromessi di coabitazione, anche là dove le due realtà erano costrette a interagire. Al massimo si disponevano una a fianco dell’altra sui due versanti delle barriere di confine e, se non si ignoravano del tutto, raramente riuscivano ad andare al di là della possibilità di influenzarsi a vicenda da posizioni remote, stando ognuna ben salda nelle proprie trincee.

La prospettiva orientata a favore della lotta riaffiora con asprezza nella produzione oratoria, oltre che nella connessa riflessione politico-religiosa di un esponente di punta del mondo ecclesiastico cinquecentesco come Iacopo Sadoleto: segretario di curia al tempo di papa Leone X, anch’egli si coinvolse alacremente nei maneggi politico-diplomatici che vedevano il centro della Chiesa di Roma in prima linea nel perorare la causa, per altro mai approdata a buon fine, di una solidale riscossa antimusulmana, sostenuta dalla cerchia la più estesa possibile di prìncipi cristiani. La predicazione della crociata trovò nel vescovo di Carpentras e futuro cardinale un’occasione di energico rilancio, rinverdendo stili di linguaggio che tornavano, in tal modo, a essere clamorosamente riproposti, senza timore di esporsi all’ambiguità della forzatura anacronistica. I tempi mutati, in effetti, remavano ormai decisamente contro.

(2 – continua)

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