Finita l’ubriacatura di elogi per la scomparsa di Eugenio Scalfari, uno dei protagonisti indiscussi della cultura e del giornalismo, ma anche della politica italiana, bisogna riconoscere che non tutti sono propensi a santificarlo, anche se papa Francesco lo ha annoverato tra i propri amici.
Si è sempre definito un laico, ma più propriamente si dovrebbe dire laicista. Cioè seguace di quella posizione secondo cui non solo deve sussistere una separazione tra ambito politico e religioso, bensì in senso più radicale, la dimensione religiosa viene relegata nell’ambito della coscienza e non può avere alcuna cittadinanza come soggetto culturale, politico e sociale. Su posizioni più dialoganti negli anni del ritorno alla vita privata, rispetto a quando era in sella ai suoi giornali, prima l’Espresso e poi Repubblica, è stato un paladino della laicizzazione della società italiana. Ma chi era in realtà Eugenio Scalfari?
Aveva il giornalismo nelle viscere, sin quando da giovane fascista fu caporedattore della rivista romana dei Guf (Giovani universitari fascisti) e per aver insinuato, senza prove sicure, intrallazzi nella gestione dei terreni dell’Eur, fu prima convocato dall’allora vicesegretario del Pnf, Carlo Scorza, e poi degradato ed espulso dal corpo. Nell’immediato dopoguerra iniziò la carriera nelle banche, ma fu nel 1955 che Scalfari spiccò il volo, quando assieme ad Arrigo Benedetti fondò l’Espresso, assumendone la carica di direttore amministrativo, mentre la direzione giornalistica venne presa proprio da Benedetti, cronista di inchiesta che si era fatto le ossa con Longanesi a Omnibus e nell’immediato dopoguerra con la creazione dell’Europeo.
Scalfari redasse il piano industriale, scriveva di economia, mentre Benedetti rilanciò e precisò la sua idea maturata all’Europeo, ma con meno cronaca nera e con in più delle inchieste graffianti che dovevano contraddire la classe dirigente “per non indulgere ai suoi vizi tradizionali e magari facendola soffrire”. Nell’editoriale del primo numero, uscito il 2 ottobre 1955, venne invocata l’indipendenza della testata dalla politica e dal proprietario, ispirandosi al modello di Time e dell’Economist, che utilizzavano un comitato di garanti con potere di nomina e revoca del direttore.
Arrigo Benedetti non fu soltanto maestro di giornalismo per il giovane intellettuale. Era un liberale non conservatore e per l’amicizia con il conterraneo Pannunzio, confluì nel gruppo che, staccatosi dal Pli, dette origine al Partito radicale dei liberali e dei democratici. Scalfari fu anch’egli tra i fondatori del partito, ma era anche uomo di mondo e si era ben inserito nella borghesia illuminata di stampo laico. Il matrimonio nel 1948 con Simonetta De Benedetti, figlia di Giulio, direttore della Stampa per un ventennio, fu il trampolino di lancio. Riuscì ad entrare nel giro di Raffaele Mattioli, gran patron della Comit, di Ugo La Malfa, di Bruno Visentini, Leopoldo Pirelli e di grandi intellettuali come Strehler, Bo, Montale, Elena Croce. Il cosiddetto “salotto Comit” gli permise di crescere e l’ex fascista e monarchico divenne un liberale di sinistra a contatto con l’eredità dello scomparso Partito d’azione.
L’altra grande conoscenza, un’amicizia lunga una vita, nacque sempre all’Espresso. Carlo Caracciolo, cognato degli Agnelli, divenne l’editore della testata e nel 1963 Scalfari prese la direzione del settimanale. Lo spirito aggressivo e ideologico della testata si intensificò e le grandi inchieste, soprattutto volte a scardinare i legami conservatori tra il potere politico e i ceti dirigenti della repubblica, anticiparono la fisionomia di un organo di stampa che conduce battaglie proprie, che propone temi da comunicare alla pubblica opinione. Scalfari si sposta su posizioni ancor più laiciste e, abbiamo detto, partecipa alla fondazione del Partito radicale che sarà di Pannella e della Bonino, causando una completa rottura nel 1967 con Benedetti.
Lo scivolone dell’inchiesta sul “Piano solo”, il presunto tentato golpe del generale Giovanni De Lorenzo, gli porterà una condanna penale, tanto da costringerlo a candidarsi nelle file del Psi per usufruire dell’immunità parlamentare ed evitare il carcere. Ma la politica non faceva per lui, lo annoiava e fu in quell’occasione che nacque la rivalità, mai nascosta, che spesso sfociò in scontro aperto, con un giovane e promettente deputato, Bettino Craxi. Eugenio Scalfari voleva imporre la sua idea e la politica non era il mezzo giusto. Un giornale, ci voleva un giornale per laicizzare la società italiana, che in quegli inizi degli anni Settanta svoltava a sinistra.
Laicizzare, per il compagno di banco di Italo Calvino (ai tempi in cui il padre di Eugenio fu trasferito a Sanremo), voleva dire combattere le due chiese contrapposte, quella democristiana e quella comunista. Cambiare una classe dirigente non legata ideologicamente al mondo cattolico e a quello operaio, né alla borghesia conservatrice. Cavalcare le istanze antiautoritarie del ’68, permettere di destrutturare la famiglia tradizionale, favorire il femminismo abortista, assolutizzare l’individuo e la sua coscienza individuale senza legami con concezioni antropologiche fondate su verità assolutizzanti, favorire una borghesia progressista sul modello liberale americano, son stati tra i punti fermi del giornalista, che nel 1976, con i soldi fatti all’Espresso, diventa con Caracciolo il fondatore e direttore di Repubblica, quotidiano innovativo, il cui editore divenne alla fine degli anni Ottanta Carlo De Benedetti, patron della Olivetti.
Alla guida di Repubblica, avanguardia nella lotta alla Democrazia cristiana, Scalfari sposa la questione morale di Enrico Berlinguer e individua nel Pci della terza via la possibilità di attuare il suo progetto. Poi si infatua di Ciriaco De Mita, segretario della Dc e capo del governo, uomo politico che secondo lui avrebbe potuto sganciare il partito di maggioranza relativa dal mondo cattolico. I “clerico-fascisti”, gli integralisti a tutto tondo, quella minoranza che stava nelle scuole e nelle università per una presenza cristiana nelle realtà sociali con movenze sessantottine, quelli di Comunione e Liberazione, visti con interesse da una altro suo nemico politico, un gigante contro cui però non si poteva far nulla, Giulio Andreotti, erano per Scalfari il fumo negli occhi. Solo negli anni Novanta Repubblica porterà un attacco frontale ad Andreotti in occasione dei processi per mafia, quando Andreotti era ormai già caduto dall’Olimpo.
Repubblica è stata ciò che ha voluto Eugenio Scalfari, un giornale-partito che oltre a informare ha fatto battaglie epocali, eletto amici e santi laici e crocifisso nemici. Tra questi Silvio Berlusconi, che contese a De Benedetti il controllo del Gruppo Espresso-Repubblica, dopo aver acquisito la Mondadori. Ma lì erano interessi di famiglia e, si sa, Scalfari con i soldi ci ha sempre saputo fare.
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