Tra i tic più difficilmente tollerabili, tra quelli che mette in mostra l’odierno ceto dei partiti, c’è innanzitutto il ritenere ogni fase della procedura elettiva come un segreto per iniziati, un cocktail di frasi fatte con cui stupire l’immaginaria folla degli spettatori al proprio reality show. La lunga fase di avvicinamento alla scelta e all’elezione del nuovo presidente della Repubblica è accompagnata da due ritornelli: tutti invocano candidature di “alto profilo”, magari anche di “alto profilo morale”, anche perché il nome del prossimo presidente giammai dovrà essere “divisivo”.
Ora, se i Nostri intendessero che servono persone capaci di guidare le istituzioni e idonee a conseguire un consenso superiore a quello della loro propria e stretta parte di appartenenza, si direbbe il vero, ma dietro il leitmotiv del profilo “alto” e “non divisivo” c’è molta fuffa, molto linguaggio (del luogo) comune, specchietti per le allodole di un tempo in cui c’è poca voglia di responsabilità, maturità e anche iniziativa concretamente politica. La verità è che all’atto del suo insediamento ogni presidente è stato “divisivo” – cuciva a malapena, o addirittura ne era espressione, uno strappo, una contesa, una costellazione di nomi già caduti in sede di primi scrutini – e pure “anonimo”, personalità magari molto riconosciuta nel proprio campo o ancora prima nella gavetta del proprio partito, ma fondamentalmente distante dal grande consenso popolare.
Succede sin dalla prima ora, successe al capo dello Stato provvisorio Enrico De Nicola, figura mediana, intellettuale meridionale, tessitore, all’inizio del fascismo nemmeno oppositore del regime, che superò il contrasto tra la destra liberale e conservatrice che voleva il giurista Vittorio Emanuele Orlando e la sinistra laica che si sarebbe affidata a Croce. Successe a Luigi Einaudi, il grande pensatore liberale. Proprio Einaudi, del resto, fu preferito all’ex ministro Sforza, che altrimenti i social-democratici e i laici collocati immediatamente a destra della Democrazia cristiana non avrebbero votato: uno dei presidenti più apprezzati ha dalla sua una delle percentuali di consensi più bassa nel voto d’aula. E successe a Gronchi, figura a lungo controversa, ma espressiva della forza aggregante delle correnti di sinistra nella Dc, rispetto a un parlamento in cui già allora l’endorsement correntizio risultava palatabile almeno quanto la ferrea appartenenza di partito.
Ma andiamo ancor più vicino ai giorni nostri: Pertini, considerato, soprattutto a sinistra (ma non solo), emblema dell’unità indivisa repubblicana sin dalla lotta al nazifascismo, fu lanciato nell’agone da Craxi, perché i partiti schieravano indefessamente alcuni dei propri più nobili esponenti senza però arrivare mai alla quadra. Il Pci proponeva lo storico leader Amendola, ma il curriculum non avrebbe difettato nemmeno al repubblicano La Malfa e al socialista Nenni, che aveva attivamente guidato – facendo del bene alla governance del Paese – i socialisti dalle origini rivoluzionarie antisistema alla maggioranza di governo dello Stato costituzionale sociale di diritto. Per paradossale che possa sembrare, una delle presidenze più associate al conservatorismo politico della seconda metà degli anni Ottanta, quella di Cossiga, fu invece votata con grande trasporto quasi dai tre quarti del parlamento, inclusa persino la Sinistra indipendente.
Il nome di Mattarella, il presidente uscente, oggi molto amato anche per la compostezza bonaria che integra il suo profilo pubblico (spesso determinante nel riconoscimento collettivo di una carica istituzionale), secondo le cronache del tempo venne attivamente agganciato da Matteo Renzi in persona: l’allora rampante leader democrat vedeva nel costituzionalista siciliano una figura non ingombrante, a differenza del predecessore Napolitano, rispetto all’esercizio della sua leadership politica nel centrosinistra di quegli anni. Napolitano, poi, alla prima elezione ritenuto il vecchio padre nobile comunista, ma votabile e/o quantomeno apprezzato da una cerchia più vasta del solo perimetro del Pci-Pds-Ds e oggi Pd, ottenne per parte propria poco più del 50 per cento dei grandi elettori. Fu rivotato – unico sin qui nella storia repubblicana – in un clima sostanzialmente plebiscitario, contro cui si scagliarono solo i populismi di allora, non ancora del tutto canalizzati nel grillismo e in parti di frangia nella destra estrema. Altro che placido barone rosso fuori dal tempo. Peraltro, Napolitano dimostrò proprio quel ruolo di playmaker presidenziale che spingerebbe le simpatie popolari e il giudizio di molti studiosi a transitare finalmente a una forma di semipresidenzialismo costituzionalmente disciplinata e sostenuta anche da un corrispondente mutamento di legge elettorale.
Insomma, il presidente della Repubblica ha sette anni per dimostrare come viva la carica, come la interpreti non tanto nel filtro del suo solo vissuto – che pure sia riconoscibile e specchiato!– ma a beneficio del senso collettivo e della tenuta democratica dello Stato. I sette giorni precedenti l’elezione, invece, per quanto inevitabilmente tormentati, ci par di capire non siano poi né l’inizio né la fine del mondo.
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