In un saggio dal titolo Genesi e significato della prima sinistra cattolica italiana postfascista pubblicato cinquant’anni fa (articolo che preludeva alla sua opera più completa, Il cattolico comunista del 1981) Augusto Del Noce tracciava un profilo approfondito dell’esperienza dei primi cattolici comunisti.

Profilo storico, ma soprattutto filosofico e ideologico che apriva spiragli molto interessanti sul patrimonio di idee, di elaborazioni e di prospettive che il cattocomunismo, per usare una categoria di giudizio generica, ma indubbiamente chiara, aveva elaborato fin dal suo nascere.



L’attenzione di Del Noce si appuntava innanzitutto su “quel gruppo che si formò a Roma fin dagli inizi, all’incirca, della Seconda guerra mondiale […] e che ebbe come figura preminente […] l’allora giovanissimo studente Franco Rodano”, intorno al quale si riunirono altri nomi significativi della cultura cattolica, da Felice Balbo ad Adriano Ossicini, da Gabriele De Rosa a Siro Lombardini e allo stesso Del Noce, anche se – ricorda il filosofo – “quando a Torino nel ’44, Balbo mi invitò ad aderire al movimento che si era ormai organizzato, le mie idee erano già radicalmente mutate”.



Esperienza assolutamente minoritaria, minuscola, quasi esclusivamente intellettuale e fallimentare sul piano politico, tanto da dissolversi già pochi mesi dopo la fine della guerra, nel dicembre 1945. I membri di questo “movimento” decisero quindi a titolo personale di abbracciare chi la Democrazia cristiana chi il Partito comunista. Altri abbandonarono la politica e si dedicarono agli studi.

Tuttavia proprio in quest’esperienza – annota Del Noce – va segnalata una caratteristica che sarà decisiva nelle esperienze successive del cosiddetto cattolicesimo di sinistra, pur con le sue molteplici sfaccettature: “la posizione di quel gruppo giovanile è l’antitesi esatta di quella degasperiana” e, nella galassia composita delle diverse forme di slittamento a sinistra (o fascinazione) del cattolicesimo italiano, proprio il degasperismo ha costituito il termine di riferimento critico che le giustifica, da Fanfani a Moro, da La Pira a Dossetti.



“Comunisti perché cattolici”

Ci si trova di fronte, nella costruzione filosofico-ideologica di questi giovani studenti, ad una seria premessa (che si indebolirà col tempo), che costituisce, al suo apparire, una delle prime riflessioni teoretiche sulla necessità storica del cosiddetto “inveramento cristiano del marxismo”. Annota Del Noce che “cattolici comunisti, non voleva dire soltanto che si può essere cattolici e comunisti” e “neanche che si poteva esserlo al modo che genericamente direi progressivo”, sul piano cioè del costante rapporto problematico tra la Chiesa e la modernità. “Significava – sottolinea Del Noce – qualcosa di molto più importante: comunisti perché cattolici”.

La questione si appuntava sulla convinzione che “il comunismo fornisce l’unica interpretazione esatta della storia contemporanea, e compie ciò non casualmente, ma perché la sua analisi obiettiva è fondata sul materialismo storico che è la vera scienza della storia, separabile da quella sovrastruttura ideologica che è il materialismo dialettico”.

In questo caso il materialismo storico, vincitore su ogni tipo di metafisica, tranne una, si poneva come antefatto necessario per l’inveramento proprio di quell’eccezione: un tomismo, che se debitamente riformato, avrebbe recuperato “la sua vera attualità, nel senso di capacità di parlare agli uomini del giorno d’oggi soltanto dopo il marxismo”.

Alla Chiesa, insomma, altro non era richiesto che l’accettazione, il riconoscimento del materialismo storico come nuova scienza della storia. Per il resto essa poteva, anzi doveva restare immobile nella propria consolidata e tradizionale identità. “Siamo qui – annota Del Noce – ad un punto della massima importanza, come quello in cui sta la singolarità più sconcertante, e forse l’unicità, del movimento. Non conosco infatti altra direzione cattolico-rivoluzionaria che non si sia alleata con qualche disegno, eretico o modernista, di rinnovamento della Chiesa. Qui invece abbiamo il caso, nelle intenzioni almeno, dell’unità tra il più radicale progressismo e la più rigorosa ortodossia”.

Tutto sommato, a ben guardare, ci si trova di fronte ad un vero e proprio rovesciamento di fronte rispetto alle ipotesi e alle aspettative che i teologi della modernità andavano compiendo e a tutt’oggi compiono. In quest’ultimo caso viene costantemente postulato un movimento della Chiesa verso il mondo, ad essa è richiesto il cambiamento, la sintonizzazione con la cosiddetta modernità. In quei giovani, quello che Del Noce chiamava “l’inveramento cristiano del marxismo”, postulava invece la fissità di una Chiesa perfetta e il movimento del mondo nuovo verso di essa. La sintesi stava tutta in uno slogan: “A Cristo il mondo nuovo”.

Non sfugge il carattere utopistico di tale posizione. Una vera e propria astrazione che non teneva conto – sottolinea Del Noce – del carattere essenzialmente ateo del marxismo, carattere imprescindibile, sostanziale, della sua stessa natura; così come, altrettanto problematico era l’intrinseco rifiuto, nel pensiero cattolico, del mito del progresso. E tuttavia, proprio perché quest’esperienza giovanile catto-comunista nasceva nel cuore del dramma del nazifascismo e della guerra, era inevitabile che essa contenesse in sé la decisa convinzione della necessità di una cesura forte non solo con il fascismo, ma con tutto il passato recente, che non solo lo aveva permesso, ma lo aveva incubato. Si trattava dello Stato liberale, certo, e della sua corrispondente società borghese.

Alla ricerca delle “nuove cristianità”

Il mito della “nuova cristianità” ha attraversato il Novecento in vari modi e seguendo rivoli diversi e spesso contrastanti. Dal Modernismo in poi l’inquietudine che ha preso molti intellettuali cattolici alla ricerca di una nuova riformulazione della vita cristiana dentro un mondo in rapidissimo movimento, ha dato vita a numerosissime opere ed esperienze. E, forse, il Vaticano II va letto innanzitutto come estremo tentativo di sintesi di tutte queste inquietudini, chiudendo un secolo di grande pensiero e aprendo suo malgrado un periodo d’insignificanza.

A modo suo, quella dei cattolici comunisti va intesa dunque come una delle voci di ricerca di una “nuova cristianità”. Certo, rispetto a tutte le altre riflessioni ad intra questi giovani avevano una grande fiducia nell’inesorabile esattezza della nuova scienza della storia e della politica in cui Marx era presentato come il nuovo Galileo – scrive Del Noce – che “rivela il meccanismo provvidenziale attraverso cui il mondo politico e sociale potrà conformarsi all’ordine morale”. Un mondo “aperto alla verità cattolica”, perché intrinsecamente ostile all’ottimismo illuministico e storicistico così come al pessimismo degli scettici, di Schopenhauer, dei decadentisti.

In tale contesto “la Chiesa non dovrà dunque affatto inseguire il mondo moderno” perché sarebbe stato quest’ultimo ad inseguire la Chiesa. Posizione originale, non v’è che dire, soprattutto se confrontata con le grandi correnti di pensiero che hanno percorso l’Europa cattolica per decenni. Del Noce le identifica sinteticamente con Maritain, Berdjaev e Mounier.

Se per Jacques Maritain (sostanzialmente ignorato dai cattolici comunisti) la condanna del comunismo come “religione atea” si accompagnava alla condanna di ogni forma di posizione politica contemporanea, per approdare ad una vaga proposta di “democrazia personalistica” che tuttavia ha avuto gran successo nel pensiero politico cattolico posteriore, il “socialismo religioso” di Nikolaj Berdjaev era oggetto di un duro attacco e classificato tra le tante “utopie comunistiche sorte in ogni epoca della storia” e con le quali la concezione materialistico-storica marxiana nulla aveva a che vedere.

Quanto a Emmanuel Mounier, che sintetizzava le due posizioni precedenti, la critica era meno dura. Se i primi due condannavano, quest’ultimo, quanto meno, testimoniava.

Considerati questi filosofi sostanzialmente inconcludenti, era soprattutto il pensiero cattolico reazionario ad interessare questi giovani cattolici comunisti. Il che non è affatto inatteso, tenuto conto che, a cominciare dall’intransigentismo italiano, il pensiero e l’azione della reazione cattolica ha avuto un carattere sostanzialmente rivoluzionario e antiborghese. L’ombra di don Davide Albertario aleggiava ancora con la sua forza polemica e combattiva. Il grande nemico di quei cattolici ottocenteschi che operavano nel grande contenitore dell’Opera dei Congressi era sostanzialmente lo Stato liberale e la sua società borghese. In una parola, il Risorgimento.

A Franco Rodano, in particolare, pareva che se la reazione cattolica si fosse liberata del “principio legittimista” avrebbe coinciso con il pensiero rivoluzionario a sua volta liberato dalle dipendenze dalla cultura borghese.

Il punto è assai importante, perché proprio sulla valutazione della società liberale e sulla via giobertiana all’ingresso dei cattolici nel nuovo Stato, si compie l’incompatibilità tra questi cercatori di nuove cristianità (e di molti altri dopo di essi) con la linea degasperiana. Del Noce cita la risposta, inattesa, di De Gasperi a Spadolini sul “politico del Risorgimento e del post-Risorgimento a cui intendesse soprattutto collegarsi”. La risposta fu netta: Gioberti. De Gasperi, insomma, intendeva la nuova Italia in continuità con l’Italia risorgimentale, di cui il fascismo era stata una tragica parentesi.

Ma vi era un altro termine di confronto, che questa volta operava nello stesso campo d’azione, la sinistra cattolica. Si tratta di Giuseppe Dossetti, che miglior fortuna avrà nell’influenzare tanta parte della politica e della cultura cattolico-democratica successiva. Dossetti – scriveva Del Noce – riteneva si dovesse “dare un’anima nuova alla Democrazia cristiana, così che essa svuotasse il comunismo dalle sue esigenze reali, inserendo […] le masse nello Stato, e attingendo dall’anima popolare la volontà di costruire uno Stato popolare”.

L’aria respirata all’Università Cattolica di Milano negli anni Trenta, le approfondite riflessioni di Francesco Vito sul corporativismo di matrice cattolica, il problema gemelliano delle masse e del loro rapporto non solo con la Chiesa ma con lo Stato, si faceva sentire, tanto da far pensare che proprio in Largo Gemelli venivano gettate le basi dei nuovi percorsi che la sinistra cattolica avrebbe seguito negli anni a venire. Il mito della “terza via”, elaborato in Cattolica, diveniva il terreno fertile, proprio perché ampio e generico, per le sperimentazioni politico-economiche di ogni parte.

L’esperienza dei cattolici comunisti si esauriva in un batter d’occhio. Troppi erano gli errori filosofici in cui era incappata, a cominciare dall’illusione di separare nel marxismo il materialismo storico dal materialismo dialettico, così come la speranza di eliminarne l’ateismo. Restavano i destini personali. Talvolta le solitudini.

Il cosiddetto catto-comunismo prendeva altre forme, forse meno profonde e originali, ma certamente più efficaci. Ma soprattutto esso si imponeva, come scelta per certi aspetti radicalmente borghese e con spiccate caratteristiche teologiche. La ricerca di una “nuova cristianità” entrava in una grande prateria i cui confini erano allora poco visibili.

(1 – continua) 

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