Sì, la location. Sì, la logistica. Sì, la politica dei prezzi, il comfort, le esperienze. Ma al di là di tutto, e forse prima, viene la struttura, il suo appeal, la conformità con le attese degli ospiti, la sua natura, il design. È certo che nella scelta del resort per la vacanza incida moltissimo proprio l’architettura di quella che sarà la propria abitazione per tutta la durata del soggiorno. E non si pensi che hotel e villaggi vengano su a caso, come i mattoncini lasciati cadere di mano per costruzioni approssimative, semplicemente funzionali allo scopo: non è così. Spesso invece sono frutto di studi meticolosi, e altrettanto spesso portano la firma di illustri professionisti, “prestati” al turismo, e i risultati si vedono.
Uno di questi maestri è Lucio Valerio Barbera (classe ’37), architetto e urbanista, professore ordinario di Progettazione architettonica e urbana all’Università La Sapienza di Roma. Nell’ambito turistico, nel 1965 forma il gruppo B.Q.Te.Mar, con V. Quilici, M. Teodori e C. Maroni con cui, assieme allo Studio di Luisa Anversa che coordina il lavoro, progetta i villaggi turistici Valtur di Ostuni (Brindisi) e di Isola Capo Rizzuto (Crotone) tra il 1966 e il 1970; ambedue realizzati, ricevono il Premio IN/ARCH 1969 (nazionale per Ostuni e regionale per Isola Capo Rizzuto). Dal 1970 opera con Studio di progettazione personale. Progetta con L. Anversa e G. Belardelli anche il villaggio turistico Valtur a Brucoli (Siracusa) ed è incaricato dalla Società Turismo 80 della progettazione dell’albergo Sheraton di Damasco (Siria), realizzato tra il 1973 e il 1977.
Professore, da dove nacque l’idea dei villaggi turistici?
Tutto iniziò sotto la spinta di Raimondo Craveri (1912-1992, antifascista, tra i fondatori del Partito d’Azione, ndr), personaggio molto più importante di quanto sia famoso, un piemontese che sposò la figlia di Benedetto Croce e scrisse il primo della collana I Saggi di Einaudi (era “Voltaire politico dell’illuminismo”, nel 1937, ndr). Nel periodo del boom economico, a metà degli anni Sessanta, lui divenne un forte manager di alcune imprese di Stato, all’interno dell’Iri, e si accorse che nel mondo stava crescendo una nuova spinta alla vacanza e un’altrettanto forte propensione per i soggiorni nei resort, nei villaggi turistici, nuove forme di villeggiatura democratica anche per ceti che fino a quel tempo non avevano potuto usufruirne. Erano nuovi modi di fare attività e vacanza insieme, condivise, insomma fare comunità in luoghi nuovi
Serviva però la finanza…
Certo, e secondo Craveri l’avventura poteva essere affrontata solo da una società a capitale misto, pubblico-privato. Così proprio lui, che ancora gravitava all’Iri, fondò una società, dopo aver contattato gli Agnelli, che conosceva bene per aver sposato in seconde nozze una discendente della famiglia Nasi, imparentata da tempo con gli Agnelli. Riuscì così ad attirare come soci la Fiat e altre grosse realtà imprenditoriali, anche di Stato. Così nacque Valtur, che sta per valorizzazione turistica, con un piccolo staff molto affiatato, prendendo come direttore generale un aostano, Mario Stevenel, e nominando ad de Conciliis, un napoletano di altissimo livello. Era ancora una piccola società: mancavano i progetti.
E puntaste subito al meridione?
Le coste italiane, in quella metà dei Sessanta, erano un paradiso. Craveri aveva poi un debito di riconoscenza verso una giovane architetta, Luisa Anversa (scomparsa nel 2022, ndr), che aveva un marito, brillante avvocato. Fu quest’ultimo a rendere possibile la separazione di Craveri, malgrado non esistesse ancora il divorzio in Italia, rendendogli realizzabili le seconde nozze e l’avvicinamento alla famiglia Agnelli. Sia Luisa che io eravamo assistenti del grande Ludovico Quaroni, architetto e urbanista. Il primo incarico che Craveri ci dette fu dunque quello per un villaggio turistico, innovativo: non doveva essere come quelli francesi, troppo dépaysement, parola che indica l’allontanamento dal solito ambiente, lo spaesamento così voluto ad esempio nei villaggi del Club Med, dove chi arriva deve sentirsi in un altrove. Noi non avevamo questa filosofia, anzi, noi architetti, ma direi anche il sentiment generale, eravamo influenzati da quello che si può chiamare ambientismo, ossia si può avere anche quel dépaysement, ma dev’essere un qualcosa che ti deve far capire il luogo dove sei, cioè attraverso l’architettura intuire ad esempio se ti trovi in Puglia, non dico attraverso la ricostruzione di una masseria pugliese, ma con i colori, le masse, i materiali che devono essere del luogo. Chi arriva deve sentirsi parte integrante di quel territorio.
Da lì il primo progetto?
Sì, per una struttura che doveva avere un migliaio di posti letto. Ci unimmo a un funzionario Iri, che aveva sottomano una serie di location possibili, tra cui ad esempio l’isola di Dino, a Praia a Mare, in Calabria, di proprietà degli Agnelli, con caratteristiche positive ma anche complicate. Noi architetti scegliemmo Isola di Capo Rizzuto e Ostuni. Era il 1966. L’idea iniziale non era solo per un villaggio, ma anche realizzare tutt’intorno uno sviluppo turistico per seconde case, per rendere l’operazione finanziaria complessivamente più sostenibile. Dunque furono selezionate quelle due zone, all’epoca praticamente desertiche, e si mossero gli apparati tecnici, e gli impianti furono affidati a un professionista specializzato, lo stesso che poi fu impegnato anche in altri villaggi.
E si arrivò ai progetti definitivi.
Quelle individuate erano zone bellissime. Ma la domanda era: come fare questi villaggi? Ci siamo guardati intorno, per studiare quelli esistenti, anche all’estero, ma noi volevamo realizzare qualcosa di diverso, in stile italiano. Dove volevano abitare gli italiani in vacanza, e come dovrà essere gestita la struttura? Una parte doveva essere un albergo tradizionale, e per lo scopo fu cooptato un direttore di hotel a cinque stelle, bravissimo, un piemontese trapiantato a Roma. Soprattutto a Ostuni, però, l’idea di albergo tradizionale fu superata, perché non era quello che volevamo. Mi inventai le stanze modulari, cioè affittabili separatamente ma anche in continuità, per nuclei più numerosi. Ricordo discussioni su tutto, anche sulla metratura delle camere, infine si arrivò all’inaugurazione, e si vide subito che la ristorazione, organizzata come in albergo, andava ripensata: così com’era era troppo onerosa.
E anche oggi si dice che la tavola mangia il letto, intendendo che il profitto generato dal soggiorno viene eroso dalle spese della ristorazione, almeno di quella tradizionale.
Appunto, quindi pensammo un cambiamento, e chiamammo un esperto alsaziano, Jean Weiler, grande organizzatore di ristorazione, che ci aprì al mondo dei buffet molto ricchi, di grande impatto, facendoci capire che il costo della ristorazione non sta tanto nei prodotti offerti ai clienti, ma nel personale. Riducendo il servizio ai tavoli, si poteva puntare sulla varietà e sulla quantità dei cibi senza affrontare spese insostenibili. Nacquero anche i tavoli che oggi si chiamerebbero social o di condivisione: in realtà erano tavoli da otto, dove le hostess all’ingresso della sala accompagnavano gli ospiti, facendo portare subito al centro del desco una grande éntrée, appunto da condividere. Furono davvero innovazioni efficaci: era il ’68 e in Italia almeno non s’era mai fatto nulla di simile. Una vera novità, di successo, tant’è che il nostro direttore, Stevenel, che poco dopo aveva fondato una sua società, ci chiamò per organizzare altre strutture di hotellerie che lui stava curando in Medio Oriente. Ho lavorato poi molto in Asia: in Arabia Saudita progettai anche alcune stazioni ferroviarie. E poi il Libano, la Siria, per uno Sheraton International, e via dicendo. In quei tempi il Medio Oriente era un mezzo paradiso, non c’erano guerre o tensioni evidenti..
E dopo Ostuni e Isola di Capo Rizzuto, le madri di tutti i villaggi italiani, oggi gestiti da TH Group, cosa venne?
Sì, quelli furono i primi, coevi con il complesso che Mattei fece costruire a Borca di Cadore, il villaggio Eni, che però seguiva logiche diverse, rivolgendosi ai dipendenti della società. Comunque, dopo Ostuni e Isola venne Brucoli, in Sicilia, forse il villaggio più “avanzato”, che nacque fin dall’inizio proprio seguendo quei criteri innovativi. Pensammo a stanze normali, ma con un’attenzione direi scultorea per l’arredamento dei bagni, con soluzioni che costituiscono da sole elementi di design di enorme efficacia.
Se oggi fosse chiamato a una nuova impresa simile, come progetterebbe il suo villaggio ideale?
Tenendo ben presente le necessità della gestione. Bisogna procedere in vari modi, perché sono convinto che prima di tutto bisogna capire la location, e visto che lo stesso luogo può essere letto in maniere diverse, penso sia bene proporre ai committenti soluzioni diverse, tra le quali poi loro faranno le loro scelte. E facendo così si sarà sicuri che i finanziatori faranno propria quella scelta e la porteranno a compimento.
Una strategia di marketing?
Io so che, ad esempio, Alessandria d’Egitto mica l’ha costruita Alessandro Magno, ma un suo architetto, però quel progetto fu sposato in pieno, tanto che il “capo” impose il suo nome. Vede, il successo in architettura, ma anche in altri campi, è dato per il 30% dal talento, ma per il 70% dalla presentation, l’esposizione, la spiegazione dell’idea, mettendoci sempre la faccia, sostenendo in prima persona quanto si è elaborato.
(Alberto Beggiolini)
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