«Non sembri proprio uno che si faceva le pere». Dicono così quelli che Paolo non lo conoscevano ai tempi della vita da vagabondo in giro per l’Italia e che in quest’uomo di 29 anni cercano inutilmente il volto pesto dell’ex drogato disadattato. Glielo dicono anche quelli che lo conoscevano, i suoi genitori, la sua mamma, che quando Paolo finisce di raccontare la sua storia davanti ad oltre quattrocento persone lo guarda come un figlio nuovo che non ha partorito lei. Paolo è rinato a Pesaro alla comunità l’Imprevisto.
Insieme a lui se ne sono andati, lo scorso 20 dicembre, altri 12 ragazzi al termine del percorso riabilitativo all’interno della struttura per minorenni gestita da Silvio Cattarina. Tossicodipendenti, spacciatori, ma anche criminali comuni e assassini. Da tutta Italia i ragazzi arrivano nella storia cominciata 18 anni fa sulle orme di quella iniziata dal compianto sacerdote pesarese don Gianfranco Gaudiano. Gaudiano era un prete col cuore grande che si prendeva a cuore ragazzi problematici. Cattarina era un trentino trasferito sull’Adriatico, con una laurea in sociologia in mano (ne aggiungerà poi anche una in psicologia), un’esperienza di spazzino alle spalle e tanto bisogno di un lavoro. Che quel lavoro si sarebbe trasformato nel compito della sua vita Silvio Cattarina non lo immaginava. Come i suoi ragazzi di oggi non s’immaginavano che avrebbero dovuto ringraziare la droga un giorno.
Chiara ha 19 anni e il curriculum di una sbandata di tutto rispetto. Adolescenza romagnola a Cattolica, le prime canne in compagnia «in quegli anni in cui ti vuoi sentire grande, l’unico padrone della tua vita», racconta. Compagnie di amici sempre più grandi, la trasgressione che si trasforma in uno stile di vita finché non conosce il classico amore maledetto. Dieci anni più grande, eroinomane. Nello spazio di poco tempo il mondo si riduce, si semplifica grazie a quel magico veleno sempre a disposizione. Chiara si consuma, arriva a pesare 44 chili e a fare piazza pulita di chiunque. I genitori a casa non immaginano niente fino al giorno in cui viene arrestata al casello di Cattolica in uno dei tanti viaggi per rifornirsi. Lì per loro si apre un mondo nuovo: la loro figlia spaccia e si droga. Lo sgomento lascia il posto alla più umiliante delle domande: dove abbiamo sbagliato e come abbiamo fatto a non accorgercene? Il giudice dei minori stabilisce che a Chiara venga concessa la possibilità della comunità, così viene trasferita all’Imprevisto. Lasciarla lì è uno strappo ancora più grande. «Mia moglie non lo accettava. Voleva essere lei a fare qualcosa per Chiara», racconta il padre. Anche Chiara non sembra un’ex tossica oggi. È bella, intelligente, mette in fila parole profonde e pesate. Perché, Camilla? «Si dice e si pensa che si casca nella droga e nelle cose brutte per la famiglia, per la gente che si ha intorno. No, sono scuse o parole che si usano tanto per dire. Io penso che ci caschiamo quasi quasi perché siamo chiamati a capire tante cose misteriose e profondissime. Quasi come lo facessimo per tutti, come per assolvere un compito».
Nel settembre 2005 Paolo è arrivato in comunità con il carico «di delusioni, fallimenti, sofferenze, insicurezze. Arrivavo a Pesaro, e questo l’ho capito molto più tardi, con il problema di non saper vivere, convinto di avere solamente un problema di sostanze stupefacenti. Ho fumato, mangiato, sniffato e mi sono iniettato tutto ciò che mi consentiva di non rendermi conto della realtà, che mi dava la possibilità in quei momenti fugaci di non pensare a chi fossi, a cosa mi capitava, a quello che non riuscivo ad accettare o che non avevo la forza di gestire. Ormai avevo deciso di farmi da solo. Ho intuito che in realtà nutrivo nei confronti della vita quel timore che tutti provano (sia noi che siamo qui ora, sia voi che siete in platea), quel rischio che tutto quel che viviamo non abbia senso».
Negli anni la realtà di Cattarina è cresciuta. Dopo la Comunità terapeutica educativa maschile (Cte) nata nel 1990, è arrivato il Tingolo per tutti, che ospita oggi una quindicina di ragazze, il Centro diurno per minori a rischio, Lucignolo, un cooperativa di lavoro, Più in là e diverse case di reinserimento maschili e femminili in cui molti ragazzi che hanno finito la comunità scelgono di vivere anziché ritornare subito a casa. La quasi totalità dei ragazzi che arrivano alla Cte e al Tingolo sono indirizzati dal Sert, oppure obbligati dal Tribunale dei minori che può convertire la pena detentiva in un percorso in comunità.
Stare in comunità significa imparare a vivere, con delle regole e nel rapporto con gli altri, in primis gli operatori. Niente di più difficile per ragazzi che la droga ha spinto a usare tutto senza conoscere e rispettare niente, e a cui il mondo offre al massimo un po’ di compassione. Qui non si chiede loro meno di quel che si possa chiedere a chiunque. Il rispetto degli orari, i pasti insieme, la cura dell’ambiente e della persona, l’impegno nel lavoro e nello studio e poi il lavoro su di sé e sulla propria famiglia, il dialogo con i genitori, che Cattarina definisce «la parte più presente nella vita delle nostre comunità». Da tutte queste cose passa il recupero di una dignità della persona. «Noi desideriamo – spiega Cattarina – che le nostre realtà siano luoghi seri e fermamente impegnati per il bene della persona, per il raggiungimento di un massimo di bene, di realizzazione, di soddisfazione. Le attività, gli incontri con le famiglie, il linguaggio, il vestiario, le camere, il giardino, le pulizie, la scuola, il ritmo, ogni atto ed ogni angolo della vita della persona sia un gesto vero, alto, forte, virile, audace, ardimentoso, coraggioso».
Ai ragazzi Silvio continua a ripetere di non aver paura. Anche nel giorno delle dimissioni, il giorno in cui le autorità di Comune e Provincia si commuovono schierate in prima fila come ogni anno al sentire le storie di questi ragazzini rinati grandi, Cattarina esorta i suoi a dire «a voce alta tutto il bisogno di vita, di libertà di forza di amore che avete dentro. Audacia ed eroismo». Gli operatori a non trattare come clienti questi ragazzi, perché «il metodo educativo è “stare con” non “fare un servizio per”. Basta di mettere al primo posto le tecniche, le conoscenze, le diagnosi, pur giuste talvolta, ma al centro c’è l’altro come imprevisto, l’altro come sempre l’imprevisto più bello che ti possa capitare».