«Il mio unico progetto è fare quello che Dio mi mostra ogni giorno». In Paraguay la parrocchia di San Rafael guidata da padre Aldo Trento riprende la coscienza medievale e lo spirito delle Riduzioni dei Gesuiti. Si accompagna l’uomo dalla nascita al cimitero, mostrando come il cristianesimo crea una civiltà dell’amore. Padre Aldo (classe 1947, nativo della provincia di Belluno) è in Paraguay dal 1989 dopo una serie di esperienze anche traumatiche (il periodo della contestazione, una crisi affettiva e la depressione). La parrocchia di San Rafael ha circa 10mila abitanti e si trova nella capitale Asunción. Nel 2004 è nato il Centro di eccellenza dedicato a San Riccardo Pampuri che ha fin qui dato assistenza a 14mila malati («Piccole ostie bianche», come le chiama padre Aldo»). Un asilo, una scuola elementare, un’azienda agricola che prima era destinata al recupero dei carcerati e oggi è una succursale per i malati di aids non terminali. Due casette per i bambini orfani o malati di aids. La Casa Gioacchino e Anna per anziani, il Banco dei donatori del sangue, il Banco alimentare. Sono queste le altre attività sviluppate da padre Aldo che a partire dall’incontro con don Giussani ha ritrovato se stesso e ha accompagnato gli ammalati in particolare quelli terminali verso l’incontro con Cristo.



Padre Aldo, è difficile sintetizzare in poche righe la sua missione

Mi occupo anzitutto di malati terminali e depressi. Quello che è strano è che avevo terrore di finire in un manicomio. Ho alle spalle anni e anni di antidepressivi. La notte che porto con me è dolorosa, ma oggi la vivo con la gioia perché Dio per realizzare le sue opere ti vuole sulla sua croce con lui. Può fare anche diversamente, ma con me ha scelto questo metodo. Stare di fronte agli ammalati significa realmente immedesimarmi con loro fino al punto che quella sofferenza diventa mia, diventa preghiera e supplica.



Nei volti dei malati si può rivedere il volto di Cristo, eppure facciamo fatica ad accettare questa condizione

Basta pensare a me. Non avevo neanche per la testa di fare queste cose. Non avevo più voglia di vivere. I morti mi hanno sempre fatto paura così come i malati terminali. Ora tutti i giorni vedo la morte in faccia. Il nostro fine è che i malati terminali possano incontrare Cristo. La morte è come il momento del matrimonio nel quale si apre la porta della chiesa con il fidanzato che aspetta sull’altare la fidanzata. Una notte muore un malato di aids e un’infermiera mi ricorda che quando le donne andavano al sepolcro avevano con sé gli aromi e i profumi. Da allora anche da noi si fa così.



La bellezza di Cristo è capace di liberare il cuore dell’uomo?

Un ragazzo di 22 anni, piegato dall’aids, mi ha detto: «Padre, io non ho mai avuto nessuno come compagno nella vita, l’unico è stato l’aids. Oggi finalmente capisco cosa cercavo». Gli ammalati chiedono continuamente i sacramenti. Una mamma di 32 anni si è ritrovata con due bambine di 7 e 8 anni, affette da malattie congenite, morte in ospedale: è rimasta da sola con un bambino e ha scelto di adottarne altri 12 malati di aids. C’è anche chi, fra gli ammalati, ha scritto un canto per ricordare che la morte libera dalle catene del corpo e fa incontrare Cristo. Crispino, 34 figli sparsi ovunque, prima di morire ha organizzato una cena per festeggiare l’ultimo compleanno con tutti i malati. I racconti sarebbero molti.

Facciamo un passo indietro. Ripercorriamo le tappe della sua vocazione

All’età di 7 anni sento la prima chiamata, ma purtroppo ero troppo piccolo. A 11 anni durante una confessione il sacerdote mi chiese se mi sarebbe piaciuto diventare prete, dissi di sì un po’ anche per il timore della sua reazione. Poi mi accorsi che quel sì aveva cambiato la mia vita: desideravo essere totalmente di Cristo.

Quali sono state le difficoltà principali?

Durante gli anni della contestazione sono entrato in crisi. Ero irrequieto: la voglia di infinito e di totalità; il cristianesimo che avevo accolto non era in sintonia con il ‘68. A Padova da giovane prete incontro Potere Operaio e lì perdo la testa. Divento simpatizzante con tutto quello che ne seguì: i superiori mi mandarono – dopo il divieto da parte del vescovo di predicare in parrocchia – a Salerno a seguire i carcerati.

La prima svolta avvenne durante una manifestazione

Nel maggio del 1975 avevo aderito a uno sciopero contro l’imperialismo americano in Vietnam. Quattro ragazzi (di cui uno mi ha scritto questa settimana) del primo anno del liceo dove insegnavo mi videro con il giornale di «Lotta continua» e mi dissero: «Padre non è così che si cambia il mondo, lei dovrebbe insegnarcelo. Il mondo si cambia, il suo cuore cambia se incontra Cristo». Rimasi sconvolto. Incominciai a seguire l’esperienza di Cl. Da lì è iniziata la mia avventura fino al 1989 quando una crisi affettiva mi ha messo ko: da un lato capivo che questa persona era importante per la mia vita, dall’altra ero prete e la mia vocazione era fuori discussione.

Poi l’incontro e il rapporto con don Giussani

Consegnai la mia situazione a don Giussani, che mi disse: «Finalmente è accaduto il miracolo, adesso diventerai un uomo». Diventare un uomo ha voluto dire fare i conti con la mia umanità che non pensavo così drammatica e così dura. Il 7 settembre 1989 don Giussani mi ha accompagnato all’aeroporto per il Paraguay. Mi sono buttato in un disegno del quale Giussani era il tessitore e Dio la mano.