«Vivevo al Nord, vicino a Kitgum; poi sono arrivati i ribelli, hanno distrutto tutto e mi hanno rapita. Quando sono riuscita a liberarmi sono scappata qui, a Kampala; un giorno, però, mentre scendevo da un taxi, sono crollata a terra per la debolezza: pesavo 25 chili e forse mi ero ammalata durante il periodo di prigionia».

Per un attimo, un velo di tristezza copre il volto di Agnes; il suo sguardo tradisce molto più di quello che riesce a comunicare con la parola. «Ho fatto gli esami e ho scoperto di essere positiva all’HIV; ho chiesto aiuto ai miei familiari che vivevano a Kampala, ma faticavano addirittura a riconoscermi; quando poi hanno saputo che stavo male, mi hanno detto che avrebbero utilizzato i loro soldi per rimandarmi al Nord con un taxi: così sarei morta e sarei stata seppellita lontano, senza dar loro troppo fastidio».

«Non sapevo più cosa fare, a chi rivolgermi; qualcuno mi aveva parlato del Meeting Point International, dove venivano accolte molte donne nelle mie stesse condizioni: era la mia ultima speranza. Lì ho incontrato “auntie” Rose, che mi ha aiutata a riconoscere il mio valore, la mia libertà: l’HIV ora non è più una cosa da nascondere, una cosa di cui vergognarsi. Io sono libera».

«“Auntie” Rose mi ha inserita nei programmi del MPI: lavoro nella cava, partecipo alle danze, al canto e alle partite di calcio; oppure faccio questo» e indica con la testa le altre donne nella stanza: siedono a gruppetti intorno a dei vassoi che contengono fili di nylon, striscioline di carta e decine di piccole palline colorate.

Una donna in particolare sembra concentrata unicamente su due ciuffetti di carta colorata che spuntano dalle sue mani; basta un attimo: li avvolge intorno a un ago, intinge la perla ottenuta nella colla, la rifinisce e la deposita insieme alle altre, nel vassoio. Gli occhi grandi come il cielo africano, sotto i quali si spalanca un sorriso imperlato di denti bianchissimi, sono un’attrazione irresistibile, che mi spinge ad avvicinarmi: «Buongiorno, come stai?».

Un inglese perfetto fluisce dalla bocca di Nancy; le chiedo di raccontarmi un po’ della sua vita, ed esordisce così: «Il mio essere libera passa attraverso il Meeting Point International. Sono qui dal 1999, quando sono fuggita dal mio villaggio; i ribelli non mi hanno presa e sono riuscita a salvare anche i miei figli. Poi ho fatto i test e ho scoperto di essere sieropositiva: ora sono in trattamento antiretrovirale».

Sistema un lembo del proprio abito blu con decorazioni bianche; tra le pieghe cerulee si intravede il gonfiore del ventre causato dai medicinali, ma non perde tempo a lamentarsi. «Vedi, questo vestito l’ho fatto io, perché mi hanno insegnato a cucire. Da quando sono qui ho imparato tutto: amare me stessa, vivere con serenità la malattia, non avere paura; qui ho imparato persino l’inglese che sto usando con te. E poi sono anche nella squadra di calcio del Centro e faccio le collane: sai che cosa usiamo? Le copertine delle riviste che si comprano al supermercato, così facciamo anche noi un piccolo mercato e possiamo sostenere i nostri figli: io ne ho quattro. Sai una cosa? Non solo la mia libertà, ma anche la mia felicità passano attraverso il Meeting Point International».

Nancy posa per un attimo la lunga fila di perline che sta confezionando, come se il lavoro potesse distrarla dai propri pensieri: «Quando torni in Italia, ringrazia i nostri amici che ci sostengono: aiutano me, ma aiutano soprattutto i miei figli».

 

Quando arriva il momento di lasciare Kireka, la jeep viene circondata da uno sciame colorato e festoso di donne. Non si passa: invadono la strada e continuano a salutare e cantare; una robusta donna sale addirittura sul cofano (il cofano di un fuoristrada, non di una utilitaria!): credo abbia quarant’anni, ma possiede la stessa tenerezza e semplicità di una bambina.

 

È Corinne, da 15 anni al MPI; mentre guardo divertito la scena, penso a quello che mi aveva raccontato poco prima: «Sono fuggita a Kampala a causa della guerra e quando sono arrivata a Kireka mi sono messa a lavorare con i miei tre figli nella cava, per guadagnare qualcosa. Un giorno Rose mi ha vista e mi ha chiesto: “Perché non mandi i tuoi figli a scuola?”; io le ho risposto che non avevo i soldi e che ero ammalata. Lei mi ha invitata al Meeting Point International e mi ha aiutata a pagare le tasse scolastiche: ora due dei miei figli vanno alla scuola primaria, mentre l’altro va alla secondaria. Con il mio lavoro voglio mantenere la loro educazione. Se c’è il sole, le mie mani possono spaccare le pietre; se piove, possono costruire le collane. Io posso fare tutto».

 

Come non crederle? Ora le collane sono vendute anche in Italia, attraverso una filiera professionale e trasparente messa insieme da una rete di amicizia veramente unica. Chiunque può comperarle, contribuendo così a sostenere le donne del Meeting Point che con AVSI vogliono costruire una nuova scuola secondaria per il futuro di 600 ragazzi.

 

(Mattia Zuliani)

 

Per comperare le collane di Rose e delle altre donne del Meeting Point International si può scrivere una mail a collane@avsi.org

Saranno anche all’Artigianato in fiera, dal 5 al 13 dicembre, nell’area Europa, grazie agli amici di Avsi Point Muggiò.