Un fatturato complessivo di 22 milioni di euro, due aziende, una che fa packaging e laminati e l’altra che commercializza prodotti per le co­munità, con in tutto circa un centinaio di dipendenti. Questi sono i nu­meri delle aziende di Nino Salerno, imprenditore siciliano che guida la Confindustria di Palermo. Aziende di famiglia, sia per quanto riguarda la direzione sia per coloro che ci lavorano, e che hanno trovato spazio col tempo, sia in Italia che nel bacino del Mediterraneo.

Come siete arrivati a svolgere le vostre attività? «L’azienda che pro­duce barattoli è nata nel 1903. L’ha fondata mio nonno. E mio padre ci ha lavorato insieme ai suoi fratelli».

Quindi siete arrivati alla terza generazione? «Certo, ma anche la quarta ha cominciato a prendersi delle responsabilità e a impegnarsi nella società».

Quanti discendenti del fondatore lavorano nella vostra impresa? «Siamo arrivati a essere otto».

Molti… «E non ci siamo tutti. Alcuni hanno deciso di dedicarsi ad altre professioni. In famiglia abbiamo medici, avvocati…».

Qual è il suo principale obiettivo come imprenditore? Di cosa si pre­occupa di più? Margini? Guadagni, quote di mercato? «Onestamente nulla di tutto ciò. Lavoriamo soprattutto per mantenere in vita una realtà che esiste da 105 anni. È una questione di orgoglio, di tradizione».

E il guadagno passa sempre in secondo piano? «Nella mia classifica personale non viene per primo e non è neanche in seconda posizio­ne». Nella quale invece c’è…? «Al secondo posto ci sono la crescita dell’impresa, l’apertura di nuovi mercati, la ricerca di nuovi clienti. An­che perché la famiglia aumenta e dobbiamo essere in grado di offrire un futuro a coloro che vogliono continuare questa attività. Per questo abbiamo aperto anche un’attività commerciale che affianca il nostro business storico».
E gli utili, i soldi? Non ci pensate proprio? «Naturalmente un’azien­da sana deve avere dei giusti profitti. Ma per ottenerli non sacrifichiamo gli obiettivi principali. È una questione di prospettiva».

In altre parole? «Meglio guadagnare meno, ma esserci anche doma­ni. E questo vuol dire, per esempio, avere meno utili, ma conquistare nuovi spazi per i nostri prodotti».

Esserci anche domani significa assicurare anche domani lavoro ai vostri dipendenti? «Certo. Anche perché la nostra azienda si trova nella zona industriale di Palermo, al Brancaccio e qui la realtà è un po’ par­ticolare».

In che senso? «Abbiamo molti dipendenti il cui nonno ha cominciato a lavorare con mio nonno e il cui padre è stato alle dipendenze di mio padre. Quando uno dei nostri lavoratori lascia l’azienda, magari dopo trent’anni di lavoro, lascia il proprio posto al figlio o lascia in azienda uno o più parenti che continuano a lavorare per noi».

Può sembrare puro nepotismo, o il passaggio generazionale di un privilegio… «E, invece, le assicuro che è una sorta di tradizione fami­gliare lavorare nella nostra azienda e ogni scelta del personale è fatta nel massimo rispetto delle norme e soprattutto di chi è meritevole, ha i numeri e le capacità che servono per lavorare per noi».

Qual è invece il vostro rapporto con la concorrenza? «Siamo in un settore in cui abbiamo a che fare sia con multinazionali sia con imprese simili alla nostra».

E quindi? «Ci poniamo in maniera differente a seconda del tipo di concorrente che abbiamo di fronte. Con la multinazionale cerchiamo di sfruttare i nostri punti di forza, come l’accesso immediato ai vertici della nostra azienda o il rapporto amicale con i clienti. Con gli altri cer­chiamo di avere dei rapporti corretti, trasparenti».

E frequenti? «In un ambito confindustriale. Faccio parte dell’Anfi­ma, l’associazione di categoria tra i produttori di imballi metallici».

Ed è utile? «Molto, altrimenti non lo farei. Anche perché porta via molto tempo. Nell’associazione e come presidente di Confindustria Pa­lermo cerco di mettere a frutto, anche nell’attività sindacale, le espe­rienze che ho maturato, specie nel campo dell’internazionalizzazione».

Nella vostra strategia rientra la conquista di quote di mercato? «Come in tutte le aziende».

Fino a eliminare i concorrenti per avere sempre maggiore potere nel mercato? «Non ci ho mai neanche pensato».

Le quote delle sue aziende sono tutte in mano alla vostra famiglia? «Sì e sono divise tra i discendenti del fondatore».

Quali sono i rapporti tra di voi? «Ottimi. Abbiamo ruoli direttivi e ci confrontiamo nel rispetto e con una finalità comune che è il bene dell’azienda».

Nessun attrito? «Ci possono essere e ci sono stati punti di vista di­versi, ma siamo sempre arrivati a un accordo perché tutti abbiamo lo stesso obiettivo».

Quanto conta il capitale umano nella vostra impresa? «Moltissimo. Ha un valore straordinario specie in un mercato come quello meridio­nale in cui ciò che conta sono i rapporti con le persone».

In che senso? «La nostra forza sta nel numero e nel fatto che in­sieme valiamo più della somma di quanto valiamo singolarmente».Sta parlando della sua famiglia? «Non solo. L’azienda è la mia grande famiglia. E l’unione di questa famiglia, insieme alle sue capacità, è la nostra arma vincente».

E i sindacati dei lavoratori cosa ne pensano? «La nostra è sempre sta­ta un’impresa sindacalizzata. In altre parole, ci sono dipendenti iscritti al sindacato e sindacalisti. Con cui abbiamo dei rapporti trasparenti, come in tutte le aziende. Ma questo non cambia la sostanza della nostra azienda».

Riuscite a valorizzare le capacità delle persone che lavorano per voi? «Non spetterebbe a me dirlo. Possiamo dire di averci sempre provato».

A giudicare dalla fedeltà dei dipendenti ci siete anche riusciti… «Una struttura come la nostra non sopravvive senza valorizzare le ca­ratteristiche migliori dei propri dipendenti. È uno dei punti di forza del­le aziende famigliari».

Per mantenere in vita un’azienda famigliare bisogna anche trasmet­tere i vostri valori alle nuove generazioni e a chi lavora con voi. Come ci riuscite? «Con l’esempio. Non c’è una scuola o un corso di forma­zione capace di farlo».

Ma avete un programma di corsi professionali? «Certo, ma possono solo migliorare le performance di impiegati, operai e dirigenti. Inten­diamoci, sono utili e necessari, ma servono ad altro».

Quali sono i vostri rapporti con i fornitori e con i clienti? «Abbiamo dei fornitori con cui facciamo affari da decenni e molti clienti che for­niamo dai tempi di mio nonno. E sono tanti sia in Italia che all’estero. Siamo cresciuti insieme, facendo strada insieme».
Ora con la crisi economica è cambiato qualcosa? «Devo ancora di­stinguere tra le grandi aziende multinazionali che forniamo o dalle quali compriamo e i piccoli e medi imprenditori con i quali abbiamo degli af­fari in comune. Cerchiamo di privilegiare questi ultimi perché i rapporti sono personali, più attenti, migliori».

E nel caso delle multinazionali? «Sta diventando sempre più difficile avere dei rapporti, perché la situazione si sta inasprendo. Hanno obietti­vi di guadagno che lasciano poco spazio agli altri. Non hanno la minima elasticità. Cercano di dettar legge più che collaborare».

In che senso? «Più di una volta da persone che conosco da anni mi è stato detto che non potevano fare nulla per risolvere un mio proble­ma, perché dall’alto o dall’altra parte del mondo avevano dettato delle regole che dovevano essere rispettate. Questo significa voler imporre la propria volontà, non fare business insieme».

E con le istituzioni? «Non forniamo enti pubblici». Ma avrà a che fare con loro? «Certo, ma ho dei rapporti nella mia veste di presidente di Confindustria Palermo, non per interessi personali. Per esempio, con l’associazione ci stiamo battendo per ridurre i lunghissimi tempi di pa­gamento delle istituzioni pubbliche».

E vi stanno ad ascoltare? «Dovrebbero, visto che le 500 aziende che rappresento sono il motore economico della zona».

Che ha problemi importanti di criminalità organizzata… «Lo sanno tutti, anche se posso dirle che le istituzioni stanno reagendo in modo efficace».

Quindi la situazione sta cambiando? «Sì. Oggi c’è un atteggiamen­to diverso nelle imprese, una maggiore tranquillità e tutta la società è coinvolta in questa lotta».