A proposito di quello che ha detto il Santo Padre in merito alla lotta contro l’AIDS, sono rimasta profondamente sconcertata per il clamore e le polemiche che ne sono seguite.
Vivo in Romania dove lavoro con giovani sieropositivi, e oltre ad essere profondamente convinta che l’AIDS non si combatte con i preservativi, sostengo che il punto non è questo! Accentuando inutili polemiche continuiamo a non voler guardare la realtà, che è fatta innanzi tutto di persone come me e come te, non di proclami.
Anzi, aggiungo che sono molto preoccupata di quello che potrà accadere e che sta accadendo nel paese in cui vivo, perché tra qualche anno rischiamo di vedere una esplosione del problema dell’AIDS senza che ce ne accorgiamo, nonostante siamo tutti ben bene informati sull’uso del profilattico.
In Romania l’epidemiologia dell’Aids sembra un caso unico: la Romania è il Paese del mondo in cui i casi di Hiv o Aids dovuti a trasmissione orizzontale non sessuale rappresentano ancora oggi, venticinque anni dopo l’inizio della pandemia, la maggior parte di tutti i casi registrati. È l’unico Paese del mondo dove il numero dei bambini morti a causa dell’Aids è superiore a quello degli adulti. Ed è l’unico paese del mondo dove la maggioranza degli infettati in vita è costituita da adolescenti. Le cifre parlano chiaro: fra il dicembre 1985 e il dicembre 2007 (ultimo dato disponibile) in Romania sono stati registrati 15.085 casi cumulativi di Hiv-Aids; di essi 9.737 sono stati diagnosticati a bambini e 5.348 ad adulti (dati della commissione mista multi settoriale per lotta AIDS).
La Fondazione AVSI, con cui io lavoro da 11 anni, ha iniziato a lavorare nel paese nel 1994 costruendo il padiglione pediatrico presso l’ospedale di malattie infettive Victor Babes di Bucarest, dove i bambini malati di Aids vivevano in condizioni decisamente inadeguate all’infanzia. Il nuovo padiglione è stato realizzato seguito il modello di eccellenza del Bambin Gesù, che poi ha anche formato il personale medico e paramedico.
Nessuno si aspettava che cure mediche adeguate avrebbero permesso la sopravvivenza di quei bambini sieropositivi, che hanno provocato una questione sociale, spesso affrontata con l’istituzionalizzazione.
Nel 1996, grazie anche alla collaborazione con una nascente ong locale, Fundatia Dezvoltarea Popoarelor (fondazione per lo sviluppo dei popoli) hanno preso avvio nuovi progetti sociali e di accoglienza.
Nel 1998 ha preso avvio un progetto con il difficile obiettivo di ricerca delle famiglie di origine di bambini sieropositivi abbandonati per una loro reintegrazione in famiglia.
Abbiamo incontrato e cercato di deistituzionalizzare circa 50 bambini abbandonati presso l’ospedale Victor Babes e circa 100 bambini abbandonati nell’istituto di Vidra, un villaggio a circa 20 km da Bucarest. Nello stesso tempo abbiamo sostenuto 50 famiglie per prevenire l’abbandono di altri 50 bambini HIV+ nella propria famiglia naturale.
Tra il 2000 e il 2003 sono state avviate 3 case di tipo famigliare con 21 bambini e 6 famiglie affidatarie che hanno accolto 7 minori sieropositivi dallo stesso istituto.
Quello che è rilevante è che questi bambini che noi abbiamo conosciuto anni fa, che abbiamo accolto, che abbiamo amato e accompagnato nel loro percorso sono ora diventati grandi e iniziano a vivere una nuova fase della loro vita, e come loro anche le altre miglialia di adolescenti sieropositivi della Romania.
Le loro domande si fanno sempre più pressanti: “quanto tempo vivrò?”; “ma potrò avere una famiglia?”; “ma se avrò dei figli saranno sani?”.
I loro desideri non si esauriscono a un “rapporto protetto”, desiderano molto di più. Desiderano un compimento, desiderano una normalità, desiderano, esattamente come me, la felicità. Sono ragazzi che ora cominciano a giocare la propria libertà con percorsi faticosi di autonomia sociale e lavorativa, sono ragazzi che si innamorano, che vanno a lavorare (almeno ci provano) e che vivono spesso una grande rabbia per l’abbandono subito e la malattia, circostanze che non possiamo noi negare e con cui ognuno di loro fa i conti ogni mattina appena sveglio, ammesso, tra l’altro, che desideri ancora svegliarsi.
Come è possibile che ci fermiamo sempre e solo a parlare del preservativo?Come possibile che non ci accorgiamo che il problema è un altro? Perché è cosi difficile guardare la persona nella sua totalità di desideri, di attesa, di bisogno?Personalmente ogni giorno mi rendo conto di correre il rischio di ridurre uno dei “miei” ragazzi a un malato, magari con una preoccupazione anche buona, per una iperprotezione, ma mi accorgo del rischio che corro di guardare ognuno di loro come “sieropositivo” e non come persona unica e irripetibile con un cuore con le stesse domande e esigenze di felicità e di compimento che ha anche il mio cuore. Quando sono più attenta invece e guardo i loro volti vedo che il loro cuore desidera molto di più, anzi grida molto di più!
Non solo quindi la via per sconfiggere l’AIDS è un’altra, ma mi chiedo: non ci rendiamo conto di come, facendo finta di essere buoni, riduciamo la questione? E’ possibile che sentir parlare di “umanizzazione della sessualità”, di “amicizia” e di “comportamento giusto” ci faccia così arrabbiare? Siamo davvero convinti che il grido del cuore si possa esaurire cosi semplicemente? O non è forse più realistica Rose di Kampala che dice: «il problema è capire se la vita ha un senso. Solo così posso voler bene a me e a chi ho davanti»?
Simona Carobene
AVSI Romania