Il 2009? «Sarà un anno di lacrime e sangue». Non ha dubbi Franco Gai, 57 anni, titolare, insieme alla sorella Grazia, della Giacomo Gai di Villarbasse, alle porte di Torino, ditta da 45 dipendenti e un giro d’affari 2008 di 7,5 milioni di euro (+5,6% sul 2007), specializzata nella produ­zione di minuterie metalliche tornite di precisione, ossia bulloni & co. E, a sorpresa, aggiunge: «Qualche vantaggio, però, c’è: lo “tsunami” economico costringerà le banche a rivedere la propria posizione».

In che senso? «Le impostazioni dall’alto non valgono più. Gli istituti di credito saranno costretti a scendere a patti anche con chi come me, pur non avendo un fatturato da capogiro, sono anni che manda avanti la baracca senza mai sgarrare una scadenza, un pagamento. Ora basta, però. Le priorità sono altre».

Ha ricevuto richieste di rientro anticipato dei crediti? «Al contrario. Sono io che ho avanzato una richiesta precisa alle banche con cui la­voro: congelare il rimborso dei prestiti per tutto il 2009 e ridistribuire quanto dovuto sui 10 anni successivi».

Altrimenti? «Non c’è un altrimenti: hanno accettato. Anche perché han­no capito che non ho alternative. I 120 mila euro al mese che finora pagavo per riscattare i debiti contratti per gli investimenti degli ultimi anni mi ser­viranno per coprire i costi fissi: stipendi, bollette e quant’altro».

Hanno accettato senza battere ciglio? «Beh, non proprio. L’opera­zione non sarà a costo zero, ovviamente, ma almeno mi darà una boc­cata d’ossigeno. E poi…».

E poi? «Per le banche 1,44 milioni di euro in un anno sono briciole, per me sono vitali».

Il fatturato, però, chiuderà con il segno più. O no? «È vero, ma c’è poco da stare allegri. Fino a settembre abbiamo lavorato bene, poi c’è stato il tracollo. A ottobre ho fatto meno 18,5% sul budget previsto, a novembre addirittura meno 35%».

Che cosa si aspetta per il 2009? «Nulla di buono, soprattutto nel primo semestre. Poi vedremo. Il punto è che nessuno sa che cosa suc­cederà davvero. E il rischio “panico” non va sottovalutato. Molte ditte preferiscono prosciugare i magazzini pur di non fare nuovi ordini».

Ha fatto tanti investimenti negli ultimi anni? «Parecchi. E farò il possibile perché lo sforzo non si riveli vano. Nel 2002 ho costruito un nuovo capannone da 3 mila metri quadrati, a 300 metri circa da quello vecchio. Da allora, poi, ho cambiato una ventina di macchinari, di cui l’ultimo costa più di un milione di euro. Per me sono soldi…».

Che cos’altro intende fare per arginare la crisi? «Ho ridefinito gli orari di lavoro in produzione. Anziché 16 ore al giorno, ora ne lavo­riamo 13. Sempre su due turni. Sono stati bloccati gli straordinari, poi, compresi quelli del sabato. Non è detto, però, che altri interventi non si rendano necessari».

Per esempio? «Potrei istituire il turno notturno, pagandolo sì in più ma anziché del 30% come prevede il contratto dei metalmeccanici, del 10-15% in più al massimo. Si risparmierebbe parecchio sul fronte bol­letta elettrica, pari oggi a 12-13 mila euro al mese: di notte l’energia costa un terzo».

Che ne pensano i suoi dipendenti? «Credo che alla fine accettereb­bero. Qui siamo tutti sulla stessa barca: sono tre anni che pareggio i conti. Altro che utili… Chi lavora con me sa benissimo che ho un unico obiettivo: salvaguardare l’occupazione. La cassa integrazione sarebbe l’ultima spiaggia: non voglio nemmeno pensarci».

E i sindacati? «Non mi interessa. Qui non ci sono. C’erano, ma se ne sono andati. Sono stati i miei stessi operai a cacciarli. E, guarda caso, non sono più tornati».

Ha mai pensato di delocalizzare la produzione? «Per carità. Lo farei solo se a chiedermelo fosse un grosso cliente già presente altrove. In quel caso, però, lavorerei solo per quel mercato o, al più, per quell’area. Non voglio produrre nei cosiddetti Paesi low cost per poi portare qui la merce. Non ne vale la pena. Soprattutto sul fronte qualità».

Risparmierebbe parecchio, però… «Sulla manodopera, certo. Ma non credo che nel medio-lungo periodo sia questa la scelta giusta. C’è un’altra cosa, poi…».

Quale? «La mia azienda è già multietnica: tra i miei operai c’è gente del Perù, dell’Iran, dalla Russia o, ancora, dal Ghana. Alcuni di loro sono con noi da 10-15 anni, anche più».

C’è chi dice che lo scambio interculturale non possa che fare bene all’azienda. È d’accordo? «Col senno di poi, direi di sì. All’inizio, però, non ero affatto entusiasta di ricorrere a personale straniero. Ma non avevo scelta. Tornitori e fresatori italiani non se ne trovano più: pare che gli operai di una volta abbiano deciso che i figli debbano stare per forza nella stanza dei bottoni».

E invece? «Molti farebbero bene a tornare in fabbrica. Ne benefice­rebbero anche sul fronte stipendio». Perché? «Chi sta in produzione da me guadagna in media 2.700-2.800 euro netti al mese. Non c’è nessuno alle prime armi, d’accordo. Molti hanno dieci e passa anni di esperienza alle spalle, però…».

E chi sta in ufficio? «Dipende dalle mansioni. Ma lì sì che c’è gente da 1.200 euro al mese. Altro che “colletti bianchi”».

Anche lei ha lavorato in produzione? «Certo. Era l’estate del 1967 quando, all’età di 15 anni, per la prima volta entrai in azienda. Mio padre Giacomo, che solo pochi mesi prima aveva rilevato la ditta, che all’epoca aveva un solo dipendente, era stato inflessibile: avrei passato le vacanze estive lavorando».

Non aveva scelta, insomma… «Beh, erano altri tempi. Dire di no ai genitori non era pensabile. Tant’è che un anno dopo lasciai pure la scuo­la per periti meccanici: l’avrei finita più tardi alle serali. Nel 1970, poi, entrò in azienda pure mia sorella, come addetta alla contabilità».

Quando c’è stato il passaggio del testimone? «Nel 1985. È da allo­ra che sono a capo dell’azienda. Mio padre, però, passa da qui tutti i giorni, o quasi. Vuole sapere che cosa succede, si tiene aggiornato, dà consigli…».

Chi sono i suoi clienti? «Ne ho 130-140 circa, per il 75% apparte­nenti al settore automotive. La sola Brembo, specializzata in sistemi frenanti, rappresenta il 36% del fatturato. È nostro cliente da 20 anni e passa».

E la Fiat? «No, la Fiat no. Non abbiamo mai lavorato con loro. Sarebbe l’ora si smetterla, poi, di identificare Torino e dintorni con la sola Fiat. È importante, per carità, ma non c’è solo quella. E poi nessuno lo dice, ma nell’indotto ha fatto sì bene ma ha fatto anche parecchi danni».

Cioè? «Ritardando i pagamenti, per esempio. Anziché saldare i for­nitori in 60 giorni, li salda in 90, 120 o, addirittura, in 150. E nessuno può ribellarsi. C’è stato un effetto domino, poi, e oggi ognuno paga quando può o vuole. Non ci si rende conto che questa è una delle prime cause di moria tra i piccoli».

Nel suo caso qual è la media dei pagamenti? «A conti fatti, 105 gior­ni. È una soglia ancora sopportabile. C’è di buono, poi, che i clienti stranieri sono disciplinati. Sarà anche un modo di dire, ma i tedeschi non sgarrano».

Quanto conta la quota export sul totale fatturato? «Il 25% circa. È dai primi anni Novanta che lavoriamo con l’estero, perlopiù con Ger­mania e Svizzera. Ma qualche cliente c’è pure in Brasile e in Turchia. Credo si possa fare di più, ma il tempo è quello che è. E pure le risorse scarseggiano. Girare le fiere per farsi conoscere costa parecchio».

Quanto investe in ricerca & sviluppo? «Il 2-3% del fatturato, non di più. Non me lo posso permettere. E sì che ce ne sarebbe bisogno».

Ha qualche idea? «Sono anni che tento di creare un consorzio tra imprese di settore perché si sviluppino sinergie su più fronti, compreso quello della ricerca. A Torino e provincia ci sono un centinaio di impre­se come la nostra. Basterebbe metterne insieme una decina. Peccato che nessuno, o quasi, mi dia retta».

Come spiega la ritrosia dei suoi «colleghi»? «È questione di caratte­re, temo. I piemontesi sono chiusi. E, poi, temono di essere fregati. Non si fidano, insomma, anche se non lo ammetterebbero mai».

Niente collaborazioni, dunque? «Ne ho un paio, al momento. Ma non c’è nulla di formalizzato. Diciamo che per ora ci passiamo i lavori: se io non riesco a sbrigare una commessa, piuttosto che perderla, la giro a uno dei miei partner e loro fanno altrettanto. In futuro, però, mi piacerebbe fare molto di più».

Ci riuscirà? «Sono ottimista, lo sono sempre stato».