Il 10 luglio 1976 Seveso divenne improvvisamente nota in tutto il mondo. Dal reattore di una fabbrica svizzera nella vicina Meda, l’Icmesa, si era liberata nell’aria una nube di diossina, una sostanza di cui poco si conosceva se non l’alto grado di tossicità. Seveso si ritrovò sotto i riflettori del mondo come teatro del primo rilevante incidente industriale in Europa. Centinaia di persone persero la casa, il lavoro, la serenità, e gli sciacalli ideologici di turno provarono ad approfittare della confusione per scardinare il tessuto sociale del paese e dell’Italia intera, con campagne allarmiste e pro-aborto.
Come oggi accade per la popolazione dell’Abruzzo, ogni calamità – indotta dall’uomo o meno poco importa – svela non solo il bisogno delle persone di essere sostenute nei bisogni quotidiani, ma anche e soprattutto la necessità che qualcuno abbia il coraggio di riaffermare, con forza e passione, la fiducia nell’altro, il desiderio di costruire a partire da qualcosa di vivo, fecondo, ricco di certezza. Che qualcuno, cioè, possa esprimere un impeto educativo vero, per sé e per gli altri. Proprio questo accadde, a Seveso.
Ambrogio Bertoglio allora era un giovane medico trentenne. «Non solo l’incidente – ricorda oggi – ma anche la campagna ideologico-mediatica colpiva pesantemente le famiglie in vario modo. Soprattutto le centinaia di bambini, che da un giorno all’altro trovarono le strade, i prati, i cortili delle zone infestate interdetti al gioco e le scuole chiuse senza sapere quando avrebbero potuto tornarci. Per certi aspetti uno straniamento paragonabile, con le dovute differenze, a quello che vediamo oggi per i terremotati».
«Con gli amici ci rendemmo conto – racconta Bertoglio – che i problemi che si aprivano a Seveso erano di tale portata, mettevano in gioco valori personali e sociali tali, che solo un nostro impegno in prima persona avrebbe potuto rispondere con vera creatività e responsabilità. Forti solo dell’esperienza di bene e positività totale vissuta negli ambiti cristiani delle parrocchie e dei movimenti ecclesiali, ci inventammo una segreteria per coordinare tutte le energie che liberamente si sprigionavano fra le persone e ci buttammo senza riserve a sostenere con “incosciente” coraggio la speranza nostra e delle persone più colpite dall’incidente».
Un’esperienza che subito si allarga, coinvolge altre persone nei dintorni. «Le parrocchie di altri paesi – continua Bertoglio – misero a disposizione gli spazi per le persone bisognose. Ci si mise in moto per organizzare centri educativi e ricreativi dove i bambini potessero passare la giornata per poi la sera tornare dai propri genitori. Era cominciata un’opera educativa permanente che sarebbe continuata in questa forma fino al 1980».
«Nel ’76 avevo 17 anni – ricorda Rosalinda Pivetta, oggi maestra elementare – e con altri amici più grandi passai quell’estate e quelle successive collaborando ai centri diurni che avevamo organizzato per allontanare i più piccoli dalle zone inquinate e offrire loro una compagnia dove sperimentare un po’ di serenità, che, per ovvie ragioni, i famigliari con la preoccupazione della casa e della salute a rischio non riuscivano a garantire. Dopo un breve tragitto in pullman si raggiungeva un bel posto in Brianza dove si trascorreva la giornata giocando, cantando, pregando e cimentandoci in laboratori creativi. Ricordo quel periodo con vera gratitudine. Io, e come me i miei amici, non ho guadagnato nulla dal punto di vista economico, ma ho imparato che rispondendo al bisogno di altri si trova risposta anche al proprio bisogno più grande: stare di fronte a ciò che accade, soprattutto se drammatico e doloroso, con la certezza che tutto ha senso e che, misteriosamente, questo senso è buono».
«Ricordo nitidamente – riprende Bertoglio – la gratitudine di molte famiglie, che ci dicevano: “Abbiamo scoperto una vita più umana di cui sentivamo il bisogno. Abbiamo capito che non si può essere uniti solo con quelli della propria famiglia, cui si è legati per motivi di affetto, ma che è possibile trasferire la fraternità anche fuori dalle mura di casa, nel quartiere e con tutta la società”».
Qualcosa cioè che sembrava impossibile, ma che ha tenuto insieme le persone e di fatto fecondato la storia di un paese, che oggi non solo è vivo e in continua crescita, ma che esprime una ricchezza di opere educative, sociali e assistenziali gestite “dal basso” difficilmente reperibile altrove.
Seveso, come il Friuli, oggi dice questo all’Abruzzo: che solo l’educazione ricostruisce un popolo, perché il bisogno di qualcuno che ci introduca a scoprire il significato buono di tutto è essenziale alla vita quanto il mangiare e il bere.
(Giovanni Toffoletto)