Siamo a Sassuolo, in provincia di Modena. Fino a quattro anni fa qui c’era il cuore della produzione mondiale di piastrelle in ceramica. Ora la Cina ha superato il distretto in quantità prodotta, ma Sassuolo rimane la capitale della tecnologia industriale e della componentistica dedicata. Davide Rivi, titolare di Rivi Magnetics Srl, ha parlato con ilsussidiario.net della sua esperienza imprenditoriale.



Che cosa fa Rivi Magnetics?

Progettiamo, produciamo e vendiamo sistemi magnetici di ancoraggio. Servono per bloccare stampi su presse. Fino a poco tempo fa venivano fissati alla macchina in modo meccanico tramite classici bulloni. Noi facciamo grossi magneti che possono essere attivati o disattivati elettricamente, in modo da bloccare lo stampo sulla pressa senza svitare o invitare. Il che si traduce in un grande risparmio di tempo e in sicurezza dell’addetto, perché l’operazione viene fatta con l’operatore completamente fuori macchina.



Come è nata l’azienda?

È stata fondata nel 1968 da mio padre, Giovanni Rivi. Ha iniziato facendo impianti elettrici e automazioni per l’industria ceramica, per produrre poi sistemi elettromagnetici semplici. Verso la fine degli anni ’80 siamo entrati in azienda io e le mie due sorelle. Mio padre vi lavora tuttora.

Un tipico caso di impresa a conduzione familiare. Il passaggio generazionale è stato difficile?

Sì, l’avvicendamento è stato molto difficile, perché ha comportato, nel tempo, una piccola rivoluzione. L’azienda era tipicamente artigiana, anche sotto il profilo della conduzione: mio padre aveva 7-8 collaboratori e il modello di gestione era molto semplice, un unico decisore con tanti esecutori. Con il nostro ingresso in azienda molto ha cominciato a cambiare. Io ho capito che qualcosa non andava e ho deciso di investire su me stesso, facendo corsi di organizzazione aziendale e di gestione della piccola e media impresa. E quando ho studiato soluzioni nuove, ho pensato di applicarle in azienda. È a quel punto che c’è stato lo “scontro” con mio padre.



La differenza nel modo di concepire l’azienda si è rivelata così decisiva?

Sì, perché dal punto di vista dell’idea di fare innovazione, mio padre mi ha sempre appoggiato, ma dal punto di vista lavorativo il suo ruolo in azienda “tagliava” orizzontalmente tutta la struttura che cercavo di costruire. Essendo di formazione artigiana, se c’era un problema andava lui a risolverlo, senza demandare la cosa ad altre persone. Questo ha generato per sette, otto anni degli scontri di vedute tra noi, che si sono sempre mantenuti nella correttezza e naturalmente nella stima reciproca. Ora mio padre lavora ancora con noi. Vista l’esperienza accumulata negli anni, si occupa prevalentemente di gestione clienti e dell’assistenza.

Cosa l’ha spinta ad investire su sé stesso e a fare autoformazione?

Negli anni ’80 sembrava che tutti i nodi fossero venuti al pettine. Cominciammo a trovarci nella situazione di affrontare una quantità di problemi tali che mi posi la domanda: è possibile che non ci sia un modo più intelligente per fare tutto questo? Come faranno gli altri? È stato allora che, in fondo, ho fatto quello che mio padre aveva sempre fatto in azienda: risolvere problemi. Ma occorreva saper rispondere a problemi nuovi, e per questo bisognava imparare daccapo. Mi si aprì un mondo completamente nuovo.

Quali sono stati principali cambiamenti?

Ho introdotto funzioni tipiche di gestione della produzione, di amministrazione e commerciale che prima non c’erano, individuando persone specifiche alle quali assegnare mansioni ben precise. Sono entrato in azienda alla fine degli anni ’80 e nei primi anni ’90 ho iniziato un processo di modernizzazione, sia di processo che di prodotto, andato avanti fino a pochi anni fa. Mi sono accorto, dopo aver iniziato a ristrutturare l’impresa, che era ora di guardare al mercato: che visione dobbiamo avere – mi chiedevo – del nostro prodotto tra cinque anni? Era una domanda che non ci eravamo mai posti. Però guardavo il mercato e mi dicevo: fanno prodotti migliori dei nostri, se non vogliamo chiudere dobbiamo fare quello che fanno loro migliorandolo.

Cos’ha voluto dire per lei, in concreto, fare innovazione di prodotto?

Ho assunto un ricercatore, laureato in fisica, e abbiamo cominciato a studiare i prodotti per modernizzarli. Avevo anche conosciuto un docente del Politecnico di Milano. Partivo alle 6,30 da Sassuolo e andavo da lui a prendere lezioni, per capire di più i sistemi magnetici.

C’è stato un episodio particolare che ha determinato la svolta verso l’attuale core business dell’azienda?

Un cliente di mio padre che faceva stampi per ceramica gli chiese se fosse in grado di fare un supporto di un certo tipo. Perché – gli disse – ho un concorrente capace di farli e io non so a chi rivolgermi… ecco, è stato così se ben ricordo. Allora mio padre cominciò a fare prove empiriche fino a costruire sistemi elettromagnetici per l’ancoraggio degli stampi solamente nel settore ceramico. In seguito abbiamo esteso questa tecnologia alle presse per la plastica, per la gomma ad alte temperature, dove abbiamo alcuni brevetti, estesi in tutti il mondo.

Nel senso che avete voi la titolarità di alcuni brevetti?

Sì. Osservando il mercato mi sono accorto che la nostra dimensione di impresa non ci permetteva di competere con aziende molto più strutturate di noi. Allora sono andato a cercare una nicchia di mercato per l’ancoraggio di stampi per altissime temperature e abbiamo ideato un metodo per costruire piani magnetici in grado di resistere fino a 250 gradi. Lo abbiamo brevettato ed esteso ai mercati di riferimento come Germania, Usa, Canada, Francia e Inghilterra e su questo abbiamo costruito la crescita della nostra impresa.

Ha appena detto di essere andato in cerca di una nicchia di mercato… sembra l’esemplificazione di un metodo tutto italiano.

Meglio essere i primi in un mercato piccolo che i numeri cinque in un mercato grande.

Cos’è oggi Rivi Magnetics?

Un’azienda di 16 persone con un fatturato di 2 milioni e 300 mila euro. A fine 2008 eravamo 19 persone, con tre laureati e sette diplomati, e con una quota export del 30%. Nel 2002 avevamo 13 persone di cui 1 laureato e sei diplomati, un milione e 400 mila euro di fatturato e una quota export del 5%. È il risultato dell’innovazione che abbiamo fatto.

Quali sono i vostri competitor?

Il principale è un’azienda di Milano leader assoluto di mercato negli ancoraggi magnetici in generale. Fa una gamma di prodotti simile alla nostra. Tenga conto che nel 2007 hanno chiuso con 45 milioni di ricavi.

Dunque un ordine di grandezza completamente diverso.

Sì. Noi puntiamo molto su due tipi di prodotti – ancoraggi per piastrelle in ceramica e per prodotti ad alte temperature – in cui loro sono più deboli: perché noi siamo nel distretto e loro fanno più fatica ad entrare dove noi siamo da 40 anni, e perché abbiamo dei brevetti.

Quando parla di distretto che cosa intende?

Un’area del raggio di circa 30 chilometri, tra Sassuolo, Reggio Emilia e Modena, dove si sono prodotti lo scorso anno 350 milioni di mq di piastrelle. Fino a qualche anno fa, prima che la Cina ci superasse, era il primo polo mondiale di produzione. Attualmente siamo sullo stesso ordine di grandezza di Castellón de la Plana, in Spagna. Ma la tecnologia delle macchine per la produzione di piastrelle ceramiche è di questa zona: il Gruppo Sacmi di Imola è il leader mondiale nella produzione di macchinari. È nostro cliente per alcuni prodotti.

E la crisi? Quanto la sentite?

I prodotti che facciamo sono principalmente legati a edilizia e automotive, i due settori che sono stati può penalizzati. Tenga conto del fatto che l’ultimo trimestre 2008 è stato, come turnover, il migliore dell’anno, e che la crisi abbiamo cominciato a sentirla dal primo trimestre 2009, con un ordine di grandezza delle perdite sui ricavi del 40%.

E come ha deciso di far fronte a questa situazione critica di estrema incertezza?

In modo strategico, preparando tre piani d’azione alternativi, da adottare in vista di una crisi breve, media o lunga. Poi li ho messi nel cassetto. Quando la crisi si è manifestata nella sua gravità, abbiamo scommesso su una crisi breve. L’azione è stata una revisione del budget con una simulazione di riduzione del -10, -20 e -30%, che poi abbiamo rivisto a -30, -40 e -50%. Dal punto di vista operativo ho parlato con i dipendenti e ho detto loro di prepararsi al peggio. Ogni mese ci fermiamo e li aggiorno sulla situazione. Abbiamo attivato da gennaio le procedure per la cig. Ho diminuito i tempi per l’analisi finanziaria dell’impresa: se prima il mio responsabile finanziario e amministrativo mi relazionava una volta al mese, ora lo fa settimanalmente, perché la velocità di cambiamento era ed è così elevata che tutti i parametri di controllo dovevano e devono essere calibrati entro spazi temporali molto corti.

Quali decisioni avete preso sul piano commerciale?

Abbiamo scelto di fare tutto il possibile. Ho chiamato i venditori ho detto: tutto quello che passa dobbiamo prenderlo. Poi sinergie a tutto campo. Clienti italiani di Sassuolo e tedeschi hanno manifestato interesse per espandere i nostri ancoraggi magnetici in altri mercati. A questo punto ho attivato un progetto di ricerca col Politecnico di Milano, dove abbiamo finanziato un assegno di ricerca, per perfezionare i prodotti da destinare ai nuovi mercati. È un progetto di 12 mesi, al termine del quale dovremmo rinnovare ulteriormente la gamma dei prodotti.

Ha l’impressione che le banche abbiano chiuso i cordoni della borsa?

Diciamo che c’è molta, molta più attenzione. Alla fine del 2007 abbiamo chiesto un finanziamento per diluire nei 12 mesi il pagamento delle tredicesime e delle tasse. Ci è stato dato un finanziamento senza chiedere nessuna garanzia. Quest’anno per fare la stessa cosa siamo stati in ballo circa sei mesi, con una garanzia di una società esterna più una garanzia anche da parte nostra del 20% dell’importo.

Cosa le lascia, sul piano personale, questo momento di difficoltà?

Per me è stata risolutiva una giornata in cui in azienda, subissato da una quantità enorme di lavoro, mi sono accordo che malgrado l’impegno c’era ben poco da fare, ed era come se tutti gli sforzi, di fronte alle difficoltà, fossero vani. È stato allora che mi sono chiesto: cosa ti spiacerebbe perdere di più, delle cose che hai? C’è da dire che negli ultimi anni ho riscoperto un rapporto col mistero, con Dio, più profondo di quello che è stato in passato. Ora ne ho rivisto il senso pressante. E quello che mi spiacerebbe di più, in questo momento – mi sono detto – sarebbe perdere la fede. Gli affetti, la libertà di fare, sono venuti dopo. È vero che il lavoro è importante, mi sono detto, ma non è tutto.

Questo che conseguenze ha avuto nel suo lavoro di tutti i giorni?

È come se avessi dato la giusta dimensione a tutto il resto. Quando la priorità per la quale uno si preoccupa quotidianamente è al quinto posto, allora dice: cercherò di fare quel che devo fare, ma rimane il fatto che dipendo da qualcos’altro. Non ultima la crisi, per capire cosa fare. Uno si sente più libero di affrontare con più serenità anche scelte dolorose, di reinvestire denaro nell’impresa piuttosto che di parlare ai ragazzi in azienda e dir loro le cose come stanno.