Leonardo Grasso, in questi giorni, si è recato ad Haiti per comprendere cosa la gente del posto stia vivendo e dare il proprio contributo. Dal Venezuela, dove è in missione da 16 anni, non appena ha avuto modo di partire, è volato verso l’isola devastata dal terremoto. E ha incontrato una realtà molto differente da come, finora, è stata raccontata dai media. Costituita da un popolo che sta reagendo in maniera imprevista al sisma. Desideroso di tornare alla vita normale e di essere protagonista della ricostruzione. Il missionario racconta a ilsussidiario.net la realtà di cui è stato testimone oculare e spiega le sue impressioni.
Lei vive in Venezuela. Cosa l’ha spinta ad andare ad Haiti?
Ho percepito immediatamente la situazione come una provocazione a lasciarmi toccare nella mia vita personale e a dare tutto l’aiuto di cui sono capace. Assieme agli amici del Venezuela ho deciso di partire subito con Juan Carlos dell’associazione Icaro.
Che situazione ha trovato?
Anzitutto una distruzione enorme. Non solo a Port-au-Prince ma anche in molte città dell’interno, distrutte all’80%, 90%. E poi, ho trovato un popolo che non si riflette nelle notizie che stanno girando, dipinto come disperato, in preda alla violenza, che saccheggia gli aiuti. Questa non è la realtà.
Qual è la realtà?
Quella, anzitutto, di un popolo che sorprende per il suo atteggiamento pacifico. Personalmente non ho assistito a episodi di violenza. Nè l’ho ravvisata parlando con le persone del luogo.
Certo, le condizioni sono molto difficili. Le case sono tutte inagibili. Anche quelle non crollate sono pericolanti. La gente dorme per strada, nei parchi. Eppure ho trovato un popolo che sorprende per il modo in cui riesce ad affrontare la circostanza. Con dignità, tranquillità e la voglia di ricominciare.
Lei dice che gli haitiani non sono un popolo di disperati. Com’è possibile che non lo siano, considerato quello che è successo?
La ragione è insita nell’animo degli haitiani. Sono un popolo che ha sofferto moltissimo. Ma che, per questo, è anche capace di affrontare condizioni che sembrano impossibili. Si tratta di gente, inoltre, molto religiosa. In grado di riconoscere, dentro le circostanze della catastrofe, un punto di forza che viene dal rapporto con Dio e con gli altri. Gli haitiani sanno affrontare e abbracciare le difficoltà con una positività estrema.
In che modo reagiscono agli aiuti?
Con estrema gratitudine, senza la pretesa o la violenza di chi si sente solamente vittima. Anche qui: i media descrivono un popolo rassegnato, che assiste passivamente agli sforzi di chi li sta aiutando. E’ vero il contrario. Gli haitiani reagiscono con grande protagonismo. Si respira, dentro la catastrofe, la voglia di ricominciare.
Ci faccia qualche esempio…
La gente ha ripreso a vendere, a recuperare le cose che ha perso. Gli haitiani si stanno organizzando all’interno degli amparos, gli accampamenti realizzati con quello che hanno trovato. Moltissimo dell’appogio logistico, poi, lo danno i locali. Tutte le automobili utilizzate dalle agenzie di cooperazione, sono guidate da loro. E locali sono gli interpreti, indispensabili all’interazione tra agenzie e popolazione. La maggior parte degli haitiani, infatti, parla il creyòl, un misto di spagnolo, francese ed elementi autoctoni. Chi è più istruito, invece, parla il francese.
Perché secondo i media, invece, sono sprofondati nella più assoluta apatia?
Le differenze culturali non hanno permesso di cogliere le loro potenzialità. Gli haitiani sono un popolo molto pacifico, tranquillo e silenzioso. Agli occhi della nostra frenesia occidentale appaiono apatici e immobili.
E gli episodi di violenza, come quelli delle bande armate di machete raccontati dai media?
In tutti i Caraibi il machete si usa perché è uno strumento di lavoro. E’ usato sui campi, per preparare da mangiare, per raschiare via lo sporco. Ci possono essere, certo, episodi di violenza e delinquenza del genere. Ma ci sono in tutte le città dei Caraibi, non è un’anomalia di Haiti.
Di cos’hanno più bisogno, adesso, gli haitiani?
C’è stato un momento in cui l’emergenza era quella di salvare i sopravissuti, portar via i cadaveri e curare i feriti. E’ inizato, da alcuni giorni, un secondo momento. Si tenta di riprendere, nei limiti del possibile, una vita normale. Il terzo apre la questione della ricostruzione e del dibattito sul modello da seguire. Di sicuro, gli haitiani non hanno bisogno di alcuno schema esterno da applic are alla loro realtà automaticamente. L’opera di ricostruzione dovrà basarsi sulla capacità di interpretare correttamente e saper dialogare con la loro cultura e la loro socialità.
Cosa intende?
Sarà necessario valorizzare le persone che vogliono sentirsi protagoniste della ricostruzione e quelle trame sociali già esistenti. Come la Chiesa. Che è la struttura più capillare e ramificata all’interno della società haitiana. Ho visto una profonda penetrazione e una grande capacità di dialogo da parte delle parrocchie e delle congregazioni religiose. Queste sono profondamente immerse nell’animo e nella cultura degli haitiani. Anche a livello di assistenza sociale ed educa
tiva. Molti amperos, ad esempio, si sono costituiti negli spazi esterni che le parrocchie o i collegi cattolici hanno reso disponibili.
Qual è stato e – se farà ritorno ad Haiti – quale sarà il suo contributo?
Ci tornerò – a breve – di sicuro. In questi giorni ho voluto stare in mezzo a questo popolo, vedere come vivono, immedesimarmi e comprendere la loro cultura. Ho visto professori e maestri riprendere la vita con i loro allievi, anche se, magari, sotto un lenzuolo. Sono realtà che, se aiutate, sono in grado di svilupparsi. Credo di poter dare il mio contributo, a livello educativo. Appoggiando quei tentativi potenzialmente capaci di generare frutti positivi. Specie nell’ambito
della Caritas. O nel mondo del lavoro. Che è il contesto in cui la persona ha maggiori possibilità di sentirsi protagonista.