Strane storie si sono raccontate nei giorni scorsi a Milano. durante l’annuale settimana formativa di AVSI che, in collaborazione con la Fondazione per la Sussidiarietà, organizza con dipendenti, collaboratori e personale dei partner locali, un’ottantina di persone provenienti da Europa, Africa, America Latina, Caraibi e Asia. Paesi nei quali AVSI lavora, da oltre 30 anni, con interventi che favoriscono lo sviluppo. Il titolo dell’incontro: “Lo sviluppo intelligente”. Il sottotitolo, tratto dalla Caritas in Veritate, racconta bene: Ogni nostra conoscenza, anche la più semplice, è sempre un piccolo prodigio, perché non si spiega mai completamente con gli strumenti materiali che adoperiamo.
«La sfida che la riflessione sulle esperienze progettuali porta con sé oggi» – sottolinea Maria Teresa Gatti di AVSI, direttore del Cto – «è quella di trasformare le pratiche in giudizi e saperi. Negli ultimi anni, molto abbiamo fatto in termini di valutazioni, di individuazione di buone pratiche, di documentazione dell’esperienza. In quest’occasione vorremmo raccogliere la sfida di distillare dalla pratica la conoscenza e renderla patrimonio comune». Ore 9.30: «un miliardo e 300 milioni di persone nel mondo soffrono di denutrizione. Un miliardo e 700 milioni di persone soffrono di obesità» – dice chiaramente Ana Lydia Sawaya, brasiliana, docente di fisiologia dell’Università federale di San Paolo e collaboratrice di una task force che studia e combatte la denutrizione nel mondo. Il tema di oggi è la sicurezza alimentare, appunto. «La malnutrizione dalla nascita porta malattie per tutta la vita. Il bambino che nasce con grave carenze alimentari avrà problemi cardiopatici, di diabete e obesità.
Non è un problema di soldi, ma di conoscenza. E’ necessario trasmettere nozioni e valori. E non solo distribuire denari nelle zone più povere». Chiara Mezzalira, medico, con quasi 30 anni di cittadinanza in Africa, dopo aver dato vita a una clinica sanitaria in Nigeria, oggi gira ancora per l’Africa patrimonializzando le conoscenze. Al seminario presenta il Sud Sudan, una realtà che ben conosce e che sta seguendo da tempo per AVSI. Siamo nella Diocesi di Torit, al Sud, al confine con l’Uganda. Dal 2005, dopo 20 anni di guerra, i timidi accordi di pace nel Paese sembrano durare e richiamando a casa la popolazione rifugiatasi altrove. «Nell’area del nostro intervento» – spiega Chiara Mezzalira – «tutta la popolazione è denutrita, il 24% moderatamente e il 12% in modo grave. Qui lavoriamo nell’unico ospedale, il St. Theresa, che dispone di cento posti letto ed è gestito dalla diocesi locale con suorine sudanesi e ugandesi».
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Qualcosa non tornava. I bambini senza una corretta alimentazione non riescono a studiare, a giocare. «Andando poi a conoscere la realtà nella quale vivevano, ho capito che a questi bambini, per crescere, non mancavano solo proteine o calorie. Mancava l’affetto». Un mix fondamentale. Per crescere dovevano essere certi dell’amore delle loro mamme. Madri quasi sempre sole che si devono barcamenare tra tanti figli e la ricerca di un lavoro impossibile. I bambini più grandi, facendo leva sulla capacità d’adattamento, in un modo o nell’altro ce la fanno, lasciando però indietro il fratellino più piccolo. Che non è proprio abbandonato, ma non riceve abbastanza attenzioni, mangia poco e male, si isola, il peso scende, non ha forze e si ammala.
Da allora, anche le mamme sono state coinvolte nel programma. Chi aiuta in cucina chi in altri lavori. Guardando come i loro figli vengono accolti e curati, nasce in loro una voglia di bellezza mai provata prima che le fa mettere in moto. E così sono nati anche laboratori artigianali che hanno generato autostima e lavoro. Persone libere. La cosa più improntate è creare una rete, favorire il dialogo e valorizzare tutto quello che c’è. «Un bambino denutrito va seguito educativamente» – tuona Ana Lydia – «Non ci sono altri metodi. L’educazione nutrizionale va a pari passo con l’affettività. Questo è il metodo. Distillare valori insegnando a riconoscerli e a perseguirli. In Messico, politiche e stili di vita così evanescenti hanno fatto sì che il Paese diventasse il maggiore consumatore al mondo di bibite gassate, alzando la percentuale del 500 per cento».
I valori della persona non possono essere ridotti a merce di scambio o sostituiti da un liberismo senz’anima che in nome di una laicità laicista annulla tutto e tutti. Il succo l’ha spiegato bene Luisa Cogo durante un affondo sull’educazione di venerdì 18 dicembre: «quello che ci interessa è accompagnare la persona aiutandola a scoprire il suo valore e le sue potenzialità. E per metterlo in pratica occorre anche una casa per tessere legami e che espliciti il coinvolgimento». La mensa, l’ospedale o i campi scuola per i campesinos in Perù raccontati da Omar o gli orti di Haiti di Tito e Fiammetta, così come il centro sanitario di Lagos che la brava Luisa ha raccontato, sono case certe e sicure. Forse difficili da raccontare in modo scientifico o impossibili da relegare in sminuenti categorie sociologiche (che a volte sono necessarie per accedere a fondi o riconoscimenti), ma vere. Genuine, semplicemente perché rispondono al bene comune. «E’ l’esperienza che vince» – dice Giorgio Vittadini nella sua lezione sul dilemma tra replicabilità degli interventi e costruzione di un soggetto – «non la difesa dei valori». La finalità? La persona protagonista e non più beneficiario.
(di Elisabetta Ponzone)