Sindaco, prefetto, procuratore, manager di importanti aziende pubbliche e private, dirigenti delle fondazioni bancarie, autorità civili e militari. Signore molto eleganti. Aperitivo e buffet nel chiostro e cena di gala all’interno. A vederla dall’esterno sembra una delle tante serate organizzate da circoli o cenacoli, magari con una spruzzatina di beneficenza.
Ciò che è accaduto sabato 26 giugno nel chiostro del Generale e nella sala dello Studio teologico della Basilica del Santo a Padova (l’antico refettorio dei frati) è però qualcosa di molto diverso. Come tutti hanno notato. Intanto per il luogo. Era la prima volta che i delegati dell’Accademia Italiana della Cucina hanno tenuto la loro Conviviale dell’equinozio d’estate in un ambiente così particolare.
Il motivo c’era, la consegna del premio “Dino Villani 2010” per la Noce del Santo, il dolce realizzato dai detenuti della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova che oramai si è affermato come la specialità antoniana per eccellenza. I detenuti, appunto. Servivano l’aperitivo, porgevano amabilmente fritturine dell’orto, soppressa al coltello e una mousse di caprino con sfilacci di cavallo. Poi, camerieri impeccabili, hanno impiattato e presentato ai tavoli le lasagnette con bisi e prosciutto di Montganana, la sfogliata alle erbe e ricotta, un elaborato e gustoso strucolo di faraona agli asparagi.
Cosa ha portato i carcerati della casa di reclusione Due palazzi alla serata di gala dell’Accademia, sotto l’occhio – più compiaciuto che vigile – del direttore del carcere Salvatore Pirruccio? Lo si capisce già dai singoli interventi introduttivi. Inizia padre Enzo Poiana, rettore del Santo: «È una lunga storia. Se vogliamo nasce proprio da sant’Antonio e dalla sua predilezione per i carcerati. Poi la decisione, nata quasi per caso, di portare due anni fa le reliquie del Santo in carcere. Poi ancora tante visite in basilica dei detenuti. Infine questi ottimi dolci sfornati dalla pasticceria del carcere e dedicati a sant’Antonio: una lunga storia di cui non siamo noi frati i protagonisti: non abbiamo nessun ruolo».
Una piccola parte, in realtà il padre Enzo la riserva a sé e alla comunità: quella degli assaggiatori. I “dolci di Antonio”, così si chiamano le specialità carcerarie dedicate al santo di Lisbona, sono stati testati dai frati della basilica, che prima di dare l’ok definitivo non hanno fatto mancare gli opportuni suggerimenti per perfezionare la ricetta. La serata, spiega il presidente del consorzio sociale Rebus Nicola Boscoletto, è cominciata nel pomeriggio proprio rendendo omaggio al padrone di casa, con una visita del personale del consorzio e dei detenuti alla tomba di sant’Antonio.
Ma cosa è successo in via Due palazzi perché detenuti spesso con crimini gravi alle spalle abbiano intravisto una prospettiva nuova? «Qualcosa di molto semplice», è la risposta di Boscoletto, «sono i rapporti veri quelli che cambiano il mondo. Le persone cambiano quando si sentono volute bene, allora possono cominciare anche loro a voler bene agli altri. Ecco perché la festa di questa sera non è un momento in cui bisogna dimenticare o lasciar da parte qualcosa: non è un teatrino, ma la scoperta di qualcosa che permette di non censurare nulla di sé». La riprova? Le immagini che scorrono serrate, ritmate sul Gloria della Messa mozartiana dell’Incoronazione, di Present Continuous, il cortometraggio del giovane filmmaker padovano Giovanni Boscolo che racconta l’ostensione del corpo di sant’Antonio.
Il filmato si concentra su una celebrazione tenuta in basilica nella sera di lunedì 15 febbraio alla presenza di una ventina di detenuti e di trecento persone provenienti dal mondo del carcere. Il gioco degli sguardi è eloquente, e la velocità con cui le persone – a causa del grande numero di fedeli presenti – sfilano intorno alle ossa del Santo non toglie evidentemente nulla all’intensità di quel vero e proprio incontro con una presenza che tocca, sfida, interroga, ma nello stesso tempo abbraccia e consola.
Il secondo è appena terminato e Nemo Cuoghi (clicca il link per leggere l’intervento), giornalista e veterano dell’Accademia, sale sul palco per introdurre il motivo della Conviviale: la consegna del premio Dino Villani ai pasticceri che hanno realizzato la Noce del Santo, il primo in ordine cronologico tra i dolci di Antonio.
Premio prestigioso, che viene attribuito dall’Accademia ai titolari delle aziende artigianali o piccolo-industriali che si distinguono da tempo nella valorizzazione dei prodotti alimentari italiani con alti livelli di qualità.
È l’occasione per un gustoso flashback sulla figura di Villani stesso, personaggio poliedrico, ideatore di Miss Italia e dell’Ambrogino d’oro e soprattutto inventore, in collaborazione con la Motta, della colomba pasquale. I “camerieri per una sera” nel frattempo servono i dolci di Antonio: non la Noce del Santo (sarà regalata a tutti al termine della serata) ma ci sono due nuove torte: la Corona del Santo e il Giglio, e tre tipi di biscotti, ispirati alle classi sociali del medioevo: il contadino, il cavaliere e il monaco.
È già tempo di ringraziamenti. Innanzitutto gli operatori del consorzio ringraziano vivamente il Padre rettore e i frati della Basilica per il rapporto tutto speciale con i carcerati. Subito dopo Boscoletto e Poiana insieme hanno un pensiero di riconoscenza per l’Accademia, in primis a Cesare Bisantis, il delegato coautore della serata che un contrattempo gli ha impedito di essere presente: «attraverso una passione antica quanto l’uomo ha saputo dare un contributo prezioso al nostro territorio, rendendolo famoso in tutto il mondo», visto che oggi la Noce del Santo è gustata da New York a Taiwan.
Ben poco però si sarebbe potuto fare senza l’apporto del direttore del carcere Pirruccio: «Un dirigente con caratteristiche difficili da trovare in questo mondo particolare qual è il carcere». Non è presente in sala Cesare Pillon, amministratore delegato di AcegasAps, che però viene lodato per aver investito sul lavoro dei detenuti in un momento di crisi in cui tutti gli enti tagliano indiscriminatamente. Grazie anche per il sostegno economico alla Fondazione Antonveneta e alla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo per i contributi volti a sostenere le attività presenti e future (si spera in un potenziamento della pasticceria del carcere di Padova).
Con un tratto di autobiografia infine Boscoletto ha voluto esprimere un pensiero di gratitudine a un amico, Graziano Debellini, leader della Tivigest, azienda turistica profit: «con lui ho imparato a fare il non profit: prima durante gli anni dell’università con migliaia e migliaia, decine di migliaia di ragazzi aiutati da metà anni 70 ad oggi; poi al lavoro, anche qui decine di migliaia di laureati e non, accompagnati a trovare un lavoro e a costruire una famiglia. Una modalità di fare profitto, il perché farlo e come usarlo: questo mi ha subito affascinato, era quello che mi aveva affascinato di mio papà e mia mamma, quella funzione propria di ogni azienda che ha saputo, con il sacrificio di tutti, ricostruire un paese dopo la Guerra, creare il benessere che molti di noi conoscono. Non c’era bisogno di distinguere in profit e non profit».
La serata volge al termine. Ma, a sorpresa, Boscoletto, chiede ancora due minuti per leggere un documento di rara intensità: la lettera che il padre musulmano e la madre cattolica di Bledar, un detenuto albanese con gravissimi precedenti, hanno scritto al figlio che sta iniziando il percorso che lo porterà al battesimo. «Papà sa che tu sei in una posizione difficile, tutti noi sappiamo che dove vivi non è facile, ma con l’aiuto di Dio non troverai difficoltà nel superare anche questa dura prova. Se tu credi in Dio e se tutto questo lo fai con il cuore, potrai trovare la serenità che solo un credente trova».
Non importa la Religione, spiega il padre, importa il credere a quella sovranità che la presenza di Dio manifesta nella vita. «Che il Signore ti possa proteggere dove io non potrò mai arrivare, perché tu sei sempre il mio piccolo Bledar. Aver intrapreso questo cammino ci ha stupiti tutti, non avremmo mai scommesso nulla: oggi ci fa capire a tutti noi che quel qualcosa che ci ha creati esiste».
Oggi, proseguono i genitori, tutta la famiglia è fiera di lui, tutti, dai nipoti ai cognati e ai parenti non trovano più timore nel dire “sì, io sono parente di Bledar”, ma sono fieri del tuo cambiamento. E si congratulano per essere diventati nonni di un bambino africano adottato a distanza da dentro le mura del carcere di Padova. «Continua così figlio mio che è così che si vive nel bene. In queste parole troverai riscontro in tutte quelle volte che ti avevamo sgridato per quello che facevi di sbagliato, ma noi ti vogliamo bene come se tu fossi il più puro del mondo». L’applauso, quasi liberatorio, esprime emozione e commozione. Si torna a casa. Eh sì, non è stata la serata di un club filantropico.